Cristianità o Europa?

SIBIU, sabato, 26 maggio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto, in occasione dell’Incontro dei Membri e Consultori europei del Pontificio Consiglio della Cultura e dei Presidenti delle Commissioni per la cultura delle Conferenze episcopali d’Europa, tenutosi a Sibiu (Romania) dal 3 al 5 maggio scorsi.

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ANNUNCIO, DIALOGO E TESTIMONIANZA DI FRONTE ALLE SFIDE DELLA SECOLARIZZAZIONE IN EUROPA PROSPETTIVE CULTURALI E PASTORALI PER L’AVVENIRE
(Pontificio Consiglio della Cultura, Sibiu, Romania, 5 Maggio 2007)

Nell’autunno del 1799 il poeta Novalis – pseudonimo di Georg Friedrich von Hardenberg – componeva un saggio intitolato Die Christenheit oder Europa , dedicato all’esame della crisi della coscienza europea connessa alla rivoluzione francese. Suo intento era offrire una prospettiva messianico-spiritualista, che favorisse una soluzione dei mali e delle contraddizioni generati dalla secolarizzazione protestante e illuminista e dagli sconvolgimenti della rivoluzione. La soluzione utopica – concepita nello stesso clima da cui nacquero i suoi Inni alla notte e i Canti spirituali – si univa alla condanna dell’Illuminismo rivoluzionario e dell’affarismo borghese. L’idea chiave di Novalis è il primato della religione, che sola può ridestare l’Europa e darle unità di fronte al rischio incombente di disgregazione: solo l’ordine della cristianità, soltanto una ristabilita respublica christiana, che si richiami alla compattezza del mondo medioevale, potrà salvare il vecchio Continente. La proposta mirava ad una nuova cristianità, capace di “ricostruire una Chiesa visibile senza riguardo a frontiere politiche, per accogliere nel suo grembo tutte le anime assetate dell’ultraterreno e fare da mediatrice fra il mondo antico e il nuovo”. Nonostante il fascino esercitato su molti, la tesi di Christenheit oder Europa si scontrava, però, con un limite costitutivo: essa proponeva un sistema utopico non meno ideologico di quello cui intendeva contrapporsi, e cioè il moderno, illuministico “ordre de la raison”.

La cristianità sognata da Novalis non aveva nulla a che vedere con l’orizzonte biblico della storia della salvezza, dominato dalla promessa divina e dalla speranza della fede. Ad una crisi epocale egli contrapponeva l’utopico ritorno al tempo senza tempo di un ideale mai esistito. Ciò spiega perché la tesi poté prestarsi a strumentalizzazioni nostalgiche e reazionarie, che favorirono lo sviluppo di concezioni del tutto opposte, volte a identificare l’anima europea con i mondi ideologici nati dalla rivoluzione francese e dalle sue elaborazioni teoriche. La “casa europea” venne vista così come la fucina di tutte le aspirazioni emancipatorie dell’età moderna, la culla e il laboratorio del programma universale di “liberté, égalité, fraternité”, nato sulle ceneri dell’assolutismo. L’eco della contrapposizione fra questi diversi modelli di comprensione dell’identità europea si è fatta ancora sentire nei dibattiti relativi alla elaborazione della costituzione dell’Unione Europea. La crisi delle ideologie, di cui il crollo del muro di Berlino nel fatidico “secondo ‘89” è metafora potente, sancendo la fine dei mondi ideologici schierati in blocchi contrapposti, che avevano trovato proprio in Europa la loro più drammatica concretizzazione, palesa anche il fallimento di ogni interpretazione ideologica dell’unità e del destino del Vecchio Continente. La disgregazione seguita negli anni Novanta – sorprendente anche rispetto alle più previdenti attese – dimostra ulteriormente come sia vano continuare a proporre in contrapposizione alla crisi in atto un modello ideologico, fosse pure quello di una mitica cristianità perduta da ritrovare: in realtà, una prospettiva spirituale, che voglia servire al superamento della crisi della coscienza europea, favorendo cammini di autentica integrazione, non potrà essere pensata nei termini di un sistema astratto o di un’ideologia rassicurante, ma dovrà offrirsi più che mai nella forma di un incontro fecondo di diversità riconciliate, di vissuti di fede provenienti da storie e culture diverse e convergenti. Un’urgenza si profila allora chiaramente per la proposta cristiana nell’Europa attuale: se è vero che essa ha connotato profondamente l’identità europea ad Ovest come ad Est nel suo formarsi, è non meno vero che non potrà incidere sul suo rinnovamento e sul suo sviluppo se non saprà armonizzare in sé la ricchezza molteplice e variegata dei suoi apporti. È urgente allora che il cristianesimo europeo riprenda a respirare con tutti e due i polmoni che lo costituiscono.

Si offre qui come singolare sorgente ispirativa la parola di un altro poeta, figlio dell’Oriente cristiano, Vjaceslav Ivanov. In una significativa lettera a Charles du Bos, dopo aver ricordato di aver confessato nella basilica di San Pietro di Roma il 17 marzo 1926 il Credo cattolico, Ivanov scriveva: “Mi sentii per la prima volta ortodosso nella pienezza dell’accezione di questa parola, in pieno possesso del tesoro sacro, che era mio dal battesimo, e il cui godimento non era stato da anni libero da un sentimento di malessere, divenuto a poco a poco sofferenza, per essere staccato dall’altra metà di questo tesoro vivo di santità e di grazia, e di respirare, per così dire, come un tisico, che con un solo polmone” (V.Ivanov, Lettre à Charles Du Bos, 1930, in V. Ivanov et M.Gerschenson, Correspondance d’un coin à l’autre, Ed. L’âge d’homme, Lausanne 1979, p. 90). Riferendosi a queste parole Giovanni Paolo II il 31 maggio 1980 aveva affermato a Parigi, rivolgendosi ai rappresentanti delle comunità cristiane non cattoliche: “Non si può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone; bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale”. Occorre allora chiedersi come possa configurarsi un simile respiro, unico e molteplice, in questa Europa alla ricerca di un’unità spirituale più forte dei localismi e dei rigurgiti di identità contrapposte. È la domanda cui vorrei rispondere con le riflessioni che seguono, presentando successivamente: 1) la parabola della modernità europea nel suo trionfo e nella sua crisi; 2) l’apporto del cristianesimo a questo processo e 3) le urgenze che si profilano per esso, nella varietà delle sue componenti, al punto in cui siamo oggi in Europa.

1. La parabola della modernità e le inquietudini della coscienza europea

a) La “ragione adulta” e la sete di totalità

La “ragione adulta” è al tempo stesso protagonista e meta della modernità europea: a partire dalla svolta verso il primato del soggetto operata da Descartes, attraverso le varie espressioni del “secolo dei Lumi”, fino al frutto maturo della rivoluzione francese e dell’ardita sistemazione speculativa del sistema hegeliano, l’“ordre de la raison” tende ad abbracciare l’intera realtà. Tutto deve essere riportato alla norma e alla misura della ragione, in modo che nessun residuo d’ombra resti ed ogni resistenza al processo emancipatorio sia vinta: è per questo che la “ragione moderna” porta in sé un’ambizione di totalità, che la rende costitutivamente assoluta e violenta. Il mondo spiegato dai grandi racconti ideologici non tollera la resistenza, non sopporta l’interruzione e non può che esorcizzare l’inquietudine della differenza: sta qui il costitutivo, drammatico limite dell’ideologia moderna, in tutte le sue declinazioni, borghesi o rivoluzionarie. L’ideologia intende cambiare il mondo e la vita a partire dal concetto: la realtà vissuta deve adeguarsi alla realtà programmata. La totalità – abbracciata dal pensiero – non tarderà a convertirsi così in totalitarismo, storicità dura e violenta, trasformazione rivoluzionaria protesa ad adeguare il reale, resistente e ottuso, all’ideale progressista e illuminato.

b) La “dialettica dell’Illuminismo” e la “caduta del senso”

La parabola delle ideologie moderne non farà che rendere evidente questa spaventosa consequenzialità: la mancanza di aderenza alla realtà “reale” e la chiusura al nuovo produrranno al tempo stesso la terribile noia e l’a
ltissimo costo – in termini umani, non meno che sociali ed ecologici – delle presunzioni ideologiche. Così, la dialettica dell’Illuminismo muoverà dalla palese, dolorosa constatazione – sperimentata proprio sul terreno europeo – di come “la terra interamente illuminata splenda all’insegna di trionfale sventura” (M. Horkheimer – Th. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino 1967, 11). Questo destino dell’epoca moderna accomuna l’ideologia rivoluzionaria all’ideologia borghese: se il totalitarismo della prima è sfacciato, manifestamente repressivo e violento, quello della seconda è sottile e penetrante, diffuso dai “persuasori occulti” delle società del benessere, esigenti e presuntuosi non meno dei vari “signori” della rivoluzione. L’amaro fallimento infrange l’uno e l’altro sogno di totalità: la noia collettiva dei regimi totalitari non è meno drammatica della nausea di chi possiede tutto; l’ansia di libertà non è meno grande del bisogno di giustizia e di autentica qualità della vita. Dall’Oriente e dall’Occidente dell’Europa la crisi della “ragione adulta” si profila come rifiuto delle sue ambizioni di totalità e come bisogno del nuovo, che spezzi il cerchio delle risposte dedotte dall’ideologia. Al di là della modernità e della sua parabola, il cosiddetto “post-moderno” si presenta come disagio, insofferenza e abbandono.

c) Nichilismo e “pensiero debole”

La crisi dell’ideologia moderna viene a profilarsi anzitutto nella forma della “caduta del senso”: lì dove la ragione emancipatoria aveva soluzioni chiare ed evidenti, organizzate all’interno di un significato onnicomprensivo e solare, il post-moderno riscopre l’oscura eccedenza della vita rispetto ad ogni “senso” ideale, il ceppo doloroso della finitudine e della morte, la differenza, che spiazza ogni tranquilla presunzione di possesso dell’identità. È una presa di congedo dalle sicurezze, una restituzione della morte e del nulla, l’abbandono di ogni fondamento, per navigare verso l’ignoto. “Pensiero debole”, “lungo addio all’essere e al fondamento”, l’avventura della post-modernità pare risolversi nel trionfo invasivo del “nichilismo” e del “relativismo”. La perdita del senso, conseguente alla crisi delle risposte totalizzanti della ragione moderna, diventa così sempre più perdita del gusto a porsi la domanda sul senso: l’indifferenza, il disinteresse a porsi la domanda sul senso si profilano come la “malattia mortale” che pervade le società pur così diverse dell’Europa di fine millennio. Il nichilismo teorico nutre il disimpegno morale, al tempo stesso in cui se ne alimenta. La cultura europea sembra così annegare in un nuovo abbraccio di totalità: il fondamento “forte” delle ideologie cede il posto all’assenza di fondamento, non meno vasta e totale, tale da escludere ogni possibilità di riscatto futuro. La fede cristiana – in quanto ha a che fare con le cose ultime e nuove (“novissima”), fondate sulla promessa di Dio – rivela qui la sua sorprendente attualità di riserva critica rispetto alle secche della modernità ideologica e del suo sviluppo nichilista: essa è pensiero “nuovo” perché ha l’audacia di pensare il “nuovo”, di aprirsi fino in fondo alle sorprese del Dio che viene.

2. Alla ricerca del senso perduto: la critica teologica all’ideologia e la crisi della coscienza europea

a) In nome della trascendenza di Dio: da Pio X al Concilio Vaticano II

Se oltre la crisi dei mondi ideologici si profila il bisogno di un “nuovo pensiero”, capace di accogliere la novità indeducibile dell’avvenire, non meraviglia che alla grande svolta del superamento della “ragione moderna” europea abbia contribuito in maniera considerevole proprio la coscienza cristiana. È merito della reazione antimodernista e del rifiuto delle presunzioni ideologiche, ispirato al primato di Dio sul cuore e sulla vita, l’aver mantenuto viva l’alternativa cristiana nelle vicende drammatiche del “secolo breve” (Eric Hobsbawm), segnato dalle grandi tragedie delle guerre mondiali, dei totalitarismi e dei genocidi, fra cui in primo luogo quello della Shoah: contro le presunzioni dell’universo ideologico di destra e di sinistra, si leva il grido di denuncia della Chiesa e dei Papi (dalla Mit brennender Sorge di Pio XI, alla condanna dei sistemi ispirati al marxismo, alla resistenza opposta alle violenze totalitarie nei regimi del “socialismo reale”), reso particolarmente eloquente nell’est europeo dalla testimonianza spinta fino al martirio di tanti cristiani. La motivazione ultima dell’opposizione alle presunzioni totalizzanti della ragione ideologica sta nella trascendenza di Dio, nel Suo essere irriducibile alla cattura degli interessi legati al potere e proprio così nel Suo offrirsi come il paladino dell’uomo e della sua libertà: il cristianesimo è anti-ideologico in quanto ha a che fare in tutto e per tutto con l’incatturabile sovranità ed eccedenza del Deus dixit, dell’evento cioè della rivelazione del Dio vivente, che si è comunicato all’uomo nella forma della promessa e della speranza, non in quella di un qualunque oggetto del conoscere (si pensi anche, in campo evangelico, alla fiera opposizione di Karl Barth al nazionalsocialismo e alla resistenza cristiana espressa nella “Bekennende Kirche”, la “Chiesa confessante”). Questo atteggiamento di alternativa a ogni riduzione ideologica e di testimonianza della sovranità trascendente di Dio caratterizza la presenza cristiana in Europa in maniera forte fino alle soglie del Concilio Vaticano II a Oriente, come in Occidente.

b) In nome dell’uomo: il Vaticano II, Concilio della storia

La reazione anti-ideologica aveva portato ad accentuare la sovranità di Dio in alternativa alle presunzioni delle ideologie. La crisi delle realizzazioni storiche delle stesse induce la coscienza cristiana a farsi paladina dell’uomo per venire incontro alla condizione di fragilità e di spaesamento in cui quella crisi lo pone. È la primavera del Concilio Vaticano II a cogliere questa nuova esigenza e ad esprimerla nella meditazione sulla condizione umana e sulla storia: al centro c’è l’idea chiave di “persona”, apporto prezioso del cristianesimo alla cultura umana in generale, in tutta la concretezza e la dignità della sua singolarità. Non di meno il protagonista storico è visto nella rete di relazioni che fanno la comunità, ecclesiale e civile: è in generale la storia ad essere riscoperta e valorizzata come luogo dell’opera divina a favore dell’uomo e della libertà della persona, chiamata alla responsabilità delle scelte e delle realizzazioni mondane. Se il forte confronto fra il pensiero della fede e la cultura dell’età moderna aveva caratterizzato il rapporto fra la Chiesa e il mondo in termini spesso di contrapposizione, il Concilio modifica profondamente questo atteggiamento: come rivela la stessa storia del titolo della Costituzione pastorale Gaudium et Spes, si passa dall’idea di una Chiesa dirimpettaia del mondo (“la Chiesa e il mondo contemporaneo”, primo titolo proposto) a una Chiesa presente in esso come lievito nella pasta, sorella e amica degli uomini (“la Chiesa nel mondo contemporaneo”, come suona il titolo definitivo). La storia del cosiddetto Schema XIII è la storia di una vera e propria conversione ecclesiologica, di un profondo cambiamento di atteggiamento e di mentalità. Due erano i fondamenti teologici su cui si reggeva l’impianto della Costituzione pastorale: da una parte c’era l’idea della dimensione cristica di tutto il creato; dall’altra quella della dimensione cosmica dell’Incarnazione.

Se tutto è stato creato per mezzo di Cristo ed in vista di lui, tutto ciò che è mondano porta in sé l’impronta e la nostalgia del Cristo: tutto dunque ha in sé germi di bene che devono essere riconosciuti in una sapiente opera di discernimento e valorizzati alla luce della rivelazio
ne. L’altra idea portante era quella della dimensione cosmica della Incarnazione: riprendendo l’assioma patristico per cui ciò che non è stato assunto non è stato nemmeno salvato, riconoscendo l’universalità della salvezza si veniva ad affermare l’universale assunzione del creato nell’opera del Signore Gesù. Tutto ciò che è terreno vive in qualche modo di Cristo e in Lui. Da questa duplice idea teologica derivava un atteggiamento di fiducia verso il mondo, un porsi con simpatia e amicizia di fronte a tutte le possibili esperienze umane in spirito di dialogo, di collaborazione e di servizio. Gli anni seguiti al Concilio hanno mostrato la fecondità di questa svolta, rendendo più che mai presente e significativa nel mondo l’opera della Chiesa: ma hanno anche portato con sé gli amari frutti di conseguenze radicali, di posizioni di appiattimento al mondo dello spirito del Vangelo. L’ottimismo teologicamente fondato della Gaudium et Spes è stato tradotto in non poche situazioni in fiducia ingenua e in dialogo perfino ambiguo con le grandezze o le misure di questo mondo. Al tempo stesso, però, la rilevanza storica della testimonianza cristiana è andata crescendo, fino al punto da divenire un elemento decisivo nei processi di cambiamento epocale realizzatisi soprattutto nell’Est europeo.

c) In nome della speranza e del futuro di Dio per l’uomo: dal post-concilio al Terzo Millennio

La nascita e lo sviluppo di nuove esperienze di incontro fra la Chiesa e la comunità umana e di nuove riflessioni da esse scaturite è frutto di queste idee del Concilio. Certamente, il processo di recezione del Vaticano II non è stato privo di difficoltà: al tempo del “rinnovamento”, legato alla primavera conciliare, ha fatto seguito una condizione di “spiazzamento”, frutto della nuova consapevolezza del pluralismo delle culture, delle urgenze storico-politiche, dei bisogni e delle espressioni spirituali e religiose. Nell’ambito della ricerca teologica lo spiazzamento si è delineato nel profilarsi di nuovi luoghi geografici di elaborazione (America Latina, Africa, Asia) accanto al monopolio europeo tradizionale, di nuovi protagonismi (in primo luogo quello dei laici e delle donne), di nuovi metodi, in rapporto specialmente all’emergere della rilevanza della prassi per il pensiero della fede (l’“ortoprassi”, da vivere in continuità con l’“ortodossia”).

La dialettica fra “regionalizzazione” e “globalizzazione”- caratteristica delle trasformazioni degli ultimi decenni – è venuta ad incidere non poco su questi processi: se l’attenzione alla “inculturazione” della fede domanda la recezione delle sfide dei contesti e l’assunzione di nuovi linguaggi, essa è inseparabile dalla questione decisiva della comunicazione della fede stessa, della possibilità cioè di mantenere legami reali di unità e di reciproca intesa fra teologie e prassi cristiane variamente contestualizzate. Si può dire tuttavia che siamo ormai giunti ad una terza fase: dopo la primavera del Concilio e l’autunno di alcuni versanti del postconcilio, si avverte oggi più che mai il bisogno di una nuova estate di fiducia e di speranza. Di fronte alla crisi della modernità, la tentazione sottile e diffusa che si fa avanti è quella della disperazione. Proprio per questo la coscienza credente avverte più che mai urgente il bisogno di riproporre la speranza teologicamente fondata: è quanto il magistero di Giovanni Paolo II prima e di Benedetto XVI ora ha inteso proporre con il richiamo della centralità del Redentore dell’uomo e della bellezza del cristianesimo, nato dall’incontro con Lui. Ricca del sentimento del tragico che gli eventi dell’ultimo secolo non possono non suscitare, la coscienza della fede non rinuncia a proporre l’orizzonte di senso che non delude: la fiducia e l’amicizia verso il mondo, fondate sull’amore che il Dio di Gesù Cristo ha verso tutte le Sue creature, tornano ad essere riproposti con urgenza. È necessario testimoniare la gioia per cui vale la pena di vivere e di vivere insieme: ed è necessario farlo non perché ingenuamente si ignori il dramma del peccato del mondo, ma perché guardando in faccia al dolore e alla morte, suoi tragici frutti, si vuole lottare e costruire insieme il mondo che deve venire.

La Gaudium et Spes vuol dire questa fiducia nell’uomo artefice con Dio del suo domani: perciò essa è attuale oggi come e forse più di quando fu scritta. Certo, la recezione del Concilio è lungi dall’essere compiuta: essa investe non solo il compito di permanente “aggiornamento” e di continua riforma della comunità ecclesiale, ma anche lo slancio missionario di tutto il popolo di Dio e l’apertura ecumenica. Se quest’ultima sembra conoscere alcune stanchezze, collegate forse alla delusione rispetto alle eccessive aspettative dell’inizio, non di meno resta vivo l’impegno per la causa dell’unità, affermato in maniera decisiva dai testi conciliari e ribadito costantemente ai più alti livelli della responsabilità ecclesiale. Mentre va crescendo il rapporto di reciproca conoscenza e amicizia con i testimoni della fede d’Israele, “santa radice” dell’albero cristiano, la coscienza missionaria provoca i credenti a guardare in avanti verso tutti i popoli, ridiscutendo pastorali solo ritualistiche, confini troppo angusti, per promuovere un nuovo rapporto con la diversità delle culture, ormai presente in ogni angolo della nostra Europa in forme sempre più articolate di “meticciato”, e con i cosiddetti “lontani” all’interno della propria cultura, oltre che una nuova cooperazione fra le Chiese sul piano della missione. In particolare, la crescente urgenza del dialogo fra le religioni mondiali, stimolato dai processi di migrazione di massa e sfidato dal cosiddetto “scontro delle civiltà”, esige più che mai una testimonianza comune da parte dei discepoli di Cristo, in una coralità che abbracci in un solo respiro i due polmoni del cristianesimo europeo. Le difficoltà che permangono non possono essere ragione di rinuncia o di disillusione: esse richiedono anzi una più profonda recezione dello spirito del Concilio da parte del popolo di Dio.

3. Il cristianesimo per il futuro dell’Europa: annuncio, dialogo e testimonianza

Dai processi delineati scaturiscono alcune priorità per la presenza e l’opera della Chiesa in rapporto alle sfide culturali dell’Europa postmoderna. Esse possono raccogliersi nel triplice impegno dell’annuncio, del dialogo e della testimonianza.

a) L’annuncio dell’orizzonte “ultimo” nella tensione del tempo “penultimo”

La consapevole attenzione all’orizzonte ultimo, dischiuso nella resurrezione di Cristo, richiede che la fede della Chiesa sappia tenersi nella tensione costitutiva del tempo “penultimo” , fra il “già” della prima venuta del Cristo e il “non ancora” del Suo ritorno. Ogni identificazione mondana dell’éschaton rischia di svuotare questa tensione, facendo della fede cristiana una illusoria “estasi dell’adempimento”. Nel rapporto con le società complesse dell’Europa “post-moderna” la stessa tensione motiva il rifiuto di ogni confusione fra appartenenza ecclesiale e militanza politica, mentre fonda per la Chiesa l’esigenza di porsi come coscienza critica delle scelte storiche, in nome della permanente ulteriorità del Regno che deve venire. Lungi dall’essere funzionale all’oggi consolidato, la comunità cristiana è chiamata ad annunciare il primato di Dio e della salvezza offerta in Gesù Cristo, unendo questo annuncio all’impegno di solidarietà verso i più deboli e di denuncia del relativismo etico in nome della speranza più grande. L’annuncio, per essere credibile, esige che i credenti siano riconoscibili per una prassi di libertà profetica, fatta di impegno solidale a caro prezzo e al tempo stesso di fermento critico e di permanente richiamo all’oltre e al nuovo del Dio vivente.

La crisi, che la coscienza europea post-moderna sta attravers
ando, si profila in modo peculiare come assenza diffusa di riferimenti etici forti, capaci di motivare l’impegno morale in ogni sua piccola o grande concretizzazione. Al consenso intorno alle evidenze etiche, che aveva nutrito gli ideali dei profeti dell’Europa unita, è lentamente subentrata una erosione, che ha fatto spazio a ben altro consenso, organizzato intorno alla logica del maggior profitto e alla prassi ispirata all’indifferenza morale (processi riconoscibili nel primato assoluto del fattore economico come base dell’unione europea e nei segnali di debolismo etico che vengono ormai da diverse decisioni del Parlamento dell’Europa unita). Il rifiuto di questi riduzionismi deve essere fermo, irrevocabile: il richiamo alle esigenze etiche preciso, irriducibile.

L’annuncio dell’ultimo orizzonte è urgenza di fede e di amore, servizio al bene comune e alla verità della vita di tutti. In questa luce, va osservato come la riscoperta del tema della morte e delle cose ultime, connessa alla questione del senso, riemerga dalle ceneri delle presunzioni ideologiche e dalla presenza pervasiva del nichilismo post-moderno. Per la coscienza cristiana ciò esige di ritornare a quella morte, dove solo si è consumata la morte della morte: il morire del Figlio di Dio nella tenebra del Venerdì Santo e il Suo risorgere alla vita. Annunciare quella morte, in cui si narra la storia della storia e la speranza del mondo, è aprirsi alla vita, non solo a quella piena del mondo che verrà, ma anche alla più profonda qualità di questa vita presente che va vissuta decidendo e scegliendo di ora in ora le forme del proprio agire nell’attesa vigile delle cose venienti e nuove, legate alla promessa di Dio.

b) Il dialogo: per un nuovo consenso etico

Nella crisi in atto potrebbe affacciarsi, però, una tentazione sottile, cedere alla quale significherebbe dare il colpo di spugna non ai processi di indebolimento etico e spirituale, ma ai valori stessi su cui si fonda la convivenza civile del nostro continente: la tentazione costituita dal dubbio intorno alle ragioni spirituali profonde del vivere insieme nella comune casa europea. Ecco perché alla via della semplice condanna va preferita quella del dialogo, che pur non prescindendo mai dall’obbedienza alla verità, si sforzi di offrire le motivazioni primariamente antropologiche delle scelte da fare, favorendo il più ampio incontro possibile al servizio della persona umana e del bene comune. Mai come ora si richiede a tutti, e specialmente ai cristiani, uno sforzo collettivo, che spinga sulla scena dell’agone politico e della costruzione della convivenza civile donne e uomini nuovi, ricchi di forti motivazioni etiche e pronti a dialogare con tutti e a sacrificarsi per gli altri. Mai come ora è tempo di impegnarsi attraverso la riflessione e il dialogo nella fatica della “ricostruzione morale” dell’Europa unita, come tanti si gettarono in quella della costruzione della casa comune europea. Oggetto appropriato del dialogo dovranno essere anzitutto alcuni parametri etici, conseguenti al riferimento all’orizzonte ultimo per ispirare le scelte di cui c’è bisogno.

Dalla coscienza di essere chiamati in ogni istante a verificare l’agire penultimo sul valore ultimo, radicato nel mistero di Dio e della Sua promessa, deriva anzitutto l’attenzione a un’etica della responsabilità, capace di anteporre il primato della rettitudine della coscienza a ogni interesse e profitto, per quanto vantaggiosi. A questa occorrerà affiancare una non meno necessaria etica della solidarietà, che impedisca all’impegno morale di chiudersi nella sfera rassicurante della “retta intenzione” e lo proietti verso la ricerca delle necessarie mediazioni storiche del rinnovamento al servizio di tutto l’uomo in ogni uomo. Solo attraverso il dialogo e la ricerca comune su questi temi si potrà preparare un’autentica rifondazione della coscienza europea a partire dall’ispirazione morale. Su questo fronte di impegno comune credenti e non credenti dovranno camminare fianco a fianco: la posta in gioco è l’uomo e la ricostruzione di un’Europa dei popoli e delle culture a misura della dignità della persona umana. I credenti dovranno apportare all’impegno comune la ricchezza di una motivazione etica forte, sostenuta dall’esperienza della fede, che nutre la vita anche nelle ore più oscure e difficili. Il dialogo e la collaborazione in campo ecumenico fra cristiani assumono qui una rilevanza precipua, anche al servizio della costruzione della casa comune europea. Occorrerà che tutti siano pronti a scommettere sul rigore e la competenza del proprio impegno, sulla precisione perfino impietosa delle analisi e sulla ricerca onesta di vie convergenti per il bene comune, per testimoniare coralmente come vivere rettamente sia non solo giusto, ma necessario e utile alla crescita comune, alla bellezza e alla dignità di una vita, che valga la pena di essere vissuta.

c) La testimonianza: far risplendere nell’eloquenza dei gesti la Bellezza che salva

La testimonianza della fede andrà resa non solo con le parole, ma anche con l’eloquenza dei gesti, soprattutto quelli ispirati dalla gratuità dell’amore verso i più deboli: la carità appare più che mai in questa Europa di inizio millennio il segno della presenza di Dio e del richiamo all’orizzonte ultimo cui Egli ci apre. E con la carità, vissuta soprattutto nella forma dell’accoglienza dello straniero, dell’immigrato, dell’emarginato, è la bellezza a configurarsi come peculiare segno di credibilità della testimonianza cristiana: mostrare come l’esperienza dell’incontro con Cristo riempia il cuore e la vita, in quanto profondissima esperienza d’amore, rendere visibile la bellezza della comunione di fronte alla folla di solitudini che spesso è la società postmoderna, far tesoro del linguaggio dell’arte, che in maniera così abbondante e qualificata si è espresso nella storia religiosa dell’Europa intera, sono altrettante forme in cui la buona novella viene a offrirsi significativamente all’attuale temperie culturale. Si tratta di riproporre coi fatti, prima ancora che con le parole, la fecondità di quelle “radici cristiane” dell’Europa, di cui più volte Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno parlato. In realtà, nessuno come la Chiesa può farsi portavoce in maniera così vasta e capillare della realtà europea dalle origini ad oggi, dall’Atlantico agli Urali, ed a nessun altro, come alla Chiesa, i popoli dell’Europa possono guardare oggi come ad un riferimento morale, rimasto più che mai valido e significativo dopo il tramonto delle ideologie e la crisi dei modelli etici in Oriente e in Occidente.

Sbaglierebbe però chi pensasse che il richiamo alle “radici cristiane” voglia essere una sorta di invito nostalgico a guardare all’indietro, quasi a ritrovare nel passato una forma esemplare per l’inquietudine del presente e per il destino futuro, nella linea della romantica Christenheit oder Europa. Il richiamo alle “radici cristiane” è piuttosto un programma e una sfida aperta per chiunque abbia a cuore la casa comune europea. Rendere testimonianza della loro rilevanza vuol dire essere anzitutto consapevoli di come, nella pur grande varietà delle realizzazioni storiche, l’ispirazione profonda della cultura europea sia debitrice della “novità” cristiana. L’idea di “persona”, che è alla base di ogni affermazione del valore assoluto dell’essere umano unico e singolare, la concezione della storia come aperta verso un progresso possibile ed orientata verso una meta sperata, la fondazione dell’etica in una rete di relazioni di reciprocità, che partono da quella col Dio personale, sono senza dubbio frutto dell’ingresso del Vangelo cristiano nel tessuto vitale dei popoli europei, e sono valori che hanno così permeato il loro ethos, a Oriente come ad Occidente, da caratterizzarlo inconfondibilmente. Tuttavia, il rimando a questi valori potrebbe restare generico ed a
lla fine meramente ideologico, se non si spingesse fino alla più originaria novità cristiana, che è quella dell’inaudito avvento di Dio nella storia degli uomini, come inizio e fondamento di una speranza, capace di cambiare il mondo e la vita.

Conclusione: ritornare al futuro

Ritornare alla promessa originaria contenuta nella resurrezione del Figlio significa in realtà “ritornare al futuro”: attraverso questa “conversione” all’originario, che è l’annuncio puro del Nuovo Testamento, trasmesso nella fede e nel vissuto spirituale dei cristiani di Oriente e di Occidente, in tutta la ricchezza delle loro peculiarità, le “radici cristiane” del continente europeo appaiono tutt’altro che oggetto di archeologia spirituale. Esse stanno al contrario nel futuro di quella promessa, fatta carne nel Crocifisso Risorto, che ha alimentato la fede e le innumerevoli storie di carità della storia d’Europa, e che è capace ancor oggi, in questo tempo post-moderno disorientato dalla fine dei modelli ideologici e dallo smarrimento etico, di motivare la testimonianza credibile di un’etica della solidarietà e di un impegno nutrito di speranza. È la promessa che ha suscitato innumerevoli e diversissime storie di fede e di generosità nei più svariati momenti e ambiti culturali della terra europea – da San Benedetto da Norcia ai santi Cirillo e Metodio, da San Francesco d’Assisi ai “folli di Dio” della spiritualità russa – e che motiva oggi il rifiuto di ogni atteggiamento passivo e rinunciatario di fronte alla crisi in atto, e l’assunzione di responsabilità verso gli altri per costruire insieme la futura “casa comune europea”.

Solo un simile ritorno al futuro della “religione della speranza” sembra capace di offrire autenticamente le sue “radici cristiane” a un’Europa, che all’Est ha bisogno di non far andar perduta – con la crisi dell’ideologia – la carica utopica che la ispirava, ed a Ovest di dare un orizzonte di senso a un universo etico quanto mai frammentato e disorientante. Le “radici cristiane” dell’Europa sono allora più un destino e una speranza, che un possesso scontato e una pretesa; lungi dal tranquillizzare, esse sfidano tutti e ciascuno a uscire dal calcolo individualistico, per entrare nel respiro ampio della solidarietà fra singoli, i popoli e le nazioni, per rendere testimonianza al solo orizzonte, che motivi l’impegno, senza rischio di tramontare: quello della speranza “ultima”, che dà valore vero e duraturo alle scelte complesse di tutto ciò che è “penultimo”.

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ZENIT Staff

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