"Credere è decidere di lasciarci amare da Dio in Gesù"

Intervento dell’arcivescovo di Genova in occasione della Veglia per la Vita

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Riportiamo di seguito l’intervento del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI, in occasione della Veglia per la Vita, che si è svolta venerdì 1° febbraio nella Cattedrale di San Lorenzo del capoluogo ligure.

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Cari Fratelli e Sorelle
 
1.        L’annuale veglia per la vita è l’occasione non solo per pregare il Dio della vita, ma altresì per riflettere e diventare più responsabili. E’ l’occasione per far crescere la nostra fede, perché sia un po’ più pensata e quindi consapevole. Ricordando l’affermazione del beato Giovanni Paolo II per cui la fede deve diventare cultura. Ciò significa in concreto che la fede ha bisogno di essere nutrita poiché è “cosa viva”, così come lo è l’amore: potremmo dire che credere è decidere di lasciarci amare da Dio in Gesù. E allora, se la fede è amore, l’amore o si nutre della verità oppure si alimenta delle nostre illusioni, cioè di noi stessi; non si apre alla verità dell’altro ma resta ripiegato su di noi. Dunque non è amore.
 
2.        La vita ci rimanda innanzitutto alla sua origine: Dio, che è la Vita, crea la vita dell’universo e, nell’universo, crea l’uomo e la donna. La vita è dunque un dono e quindi una responsabilità, un compito a partire dall’essere grazia ricevuta. Questo dato è illuminato dalla Rivelazione divina, ma è anche un’ esperienza universale: nessuno si dà la vita e quindi nessuno se la può togliere e tanto meno la può togliere ad altri. Una certa cultura di tipo scientista e tecnologico oggi permette all’uomo di fare cose fino a ieri impensabili: e questo è una conquista della ragione e della ricerca. Ma la grande possibilità di “fare”, che la tecnologia permette all’uomo, si sta trasformando in una nuova categoria culturale che è il “farsi” dell’uomo, come se egli potesse mutare a piacimento il suo stesso essere, la sua natura. Come se potesse scegliere, di volta in volta, chi essere e come essere senza nessun vincolo antropologico ed etico. E’ legittimo chiedersi allora quale tipo di società ne risulterebbe: se più umana o se più disumana.
 
3.       Il bene della vita è la premessa di ogni altro bene, e ne è anche il fondamento: il diritto, infatti, presuppone un soggetto di diritto, il suo esserci concreto! Ecco perché la vita umana è il primo dei principi primi, il valore che fonda gli altri valori. E’ questo un dato della fede cristiana, ma anche della ragione. Ecco perché la Chiesa non si stanca di affermarne il primato per difendere la dignità della persona e il volto vero della società. Non è una posizione di tipo confessionale, quasi si voglia imporre una morale religiosa allo Stato laico, ma un dato di universale evidenza anche se – come tutto ciò che di vero e di buono esiste – è ripreso, valorizzato e compiuto nel mistero di Gesù, Figlio di Dio.
 
4.      In particolare, viene proclamato il valore della vita fragile e indifesa. Nella vita terrena di Cristo emerge la sua particolare attenzione verso i bisognosi. E nella luce della croce risplende in modo drammatico la beatitudine dei poveri, l’amore di Dio verso il mondo, e la sua predilezione verso i più deboli. Dal cuore trafitto di Gesù scaturisce la grazia che salva, e la via dell’umanità vera. La fotografia realistica di una società è determinata anzitutto dal suo rapportarsi virtuoso non verso i soggetti efficienti, produttivi e gagliardi, ma verso i più bisognosi e indifesi. Sta qui la sua prima e incancellabile verità. E non intermini di assistenza, ma di giustizia che è lo scopo della buona politica. La vita fragile interpella, dunque, non solo la famiglia – quante le famiglie che si fanno carico con amore e sacrificio dei loro malati giovani o anziani che siano! – ma interpella la società intera, nel suo insieme. Chiede alla comunità e ai suoi apparati istituzionali di non essere abbandonata ma presa in carico: chiede di essere presa a cuore. E’ evidente che ciò rappresenta un impegno per la collettività in termini di risorse economiche, assistenziali e strutturali; così come è evidente che tali vite spesso non avranno da ricambiare con compensi o consenso. Ma la vera ricompensa sta nel fatto che lo Stato avrà fatto il proprio dovere, semplicemente pago di essere umano. Ecco perché, quando si giunge di fronte alla porta dei fondamentali dell’umano, non sono ammissibili silenzi, reticenze o ambiguità di alcuno, persone e istituzioni: si è arrivati al “dunque”. Ognuno deve dire chiaramente che volto intende dare allo Stato: se quello di una comunità di persone oppure di un groviglio di interessi; se un agglomerato di individui o una rete di relazioni su cui ciascuno sa di poter contare, specialmente nelle fasi di maggiore fragilità. Quale garanzie potrà dare uno Stato, e quali motivazioni e forze potrà avere per soccorrere e sostenere l’uomo nelle diverse fasi della sua vita adulta, se si avvia verso la negazione e la soppressione della vita più piccola e più debole? (cfr Benedetto XVI, Caritas in veritate, 28). E dietro a certe posizioni di non accoglienza e di abbandono, quanto pesano da parte della società le considerazioni di tipo economico? Può l’uomo, nel suo principio come nel suo tramonto, essere pesato in termini di costi e ricavi? Detto in altro modo: mettendo sul piatto quanto produce e quanto pesa sul bilancio sociale? Se la persona non è mantenuta al primo posto rispetto all’economia e alla finanza, lo Stato diventa disumano e la società, anche se ricca, diventa poverissima e si condanna alla morte.
 
5.      Ma – per essere completi – non basta che le istituzioni dello Stato garantiscano assistenza e risorse tramite strutture oppure significativi contributi alle famiglie. E’ necessario che l’intero corpo sociale se ne prenda cura. Come in concreto? Bisogna che le persone e i gruppi entrino con discrezione e amore nei luoghi di accoglienza, e – se possibile – nelle famiglie, per portare se stessi, la propria presenza: affetto e attenzione, ascolto e parola, sguardo e sorriso. Questo capitale di ordine spirituale non può essere assicurato per legge, ma solo può nascere dal cuore di ognuno, un cuore e una coscienza educati alla scuola di Dio. Le nostre comunità cristiane dovrebbero essere in prima fila in una gara di fraternità, coscienti di dover donare e di poter ricevere. E così cresce la vita e la nostra fede diventa più vera. I gruppi del catechismo, delle aggregazioni, dovrebbero assumere questa pedagogia umile e concreta della carità, che si accorge innanzitutto dei più vicini i quali, a volte, diventano i più lontani e invisibili. Ecco una società che si prende a cuore a proprio modo, insieme ad uno Stato umanistico, i più fragili nella vita. E quindi diventa sempre più capace di accompagnare le fasi difficoltose della vita adulta.
 
        Chiediamo al Signore della vita il dono di una fede più consapevole delle sue implicazioni sociali e pubbliche; chiediamo alla Santa Vergine, Madre dell’Amore, che ci aiuti a non oscurare il senso della gratuita e del dono. 

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ZENIT Staff

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