"Convertirsi significa smettere di guardare se stessi"

Commento al Vangelo della II Domenica del Tempo di Avvento. Anno A

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Per Israele convertirsi significa tornare: la “teshuvà” è, infatti, il ritorno a Dio. Questo significa conoscere il luogo dove siamo oggi concretamente e da cui uscire e quello dove andare. Per questo la conversione è, essenzialmente, un cammino.

Esso ha sempre inizio dalla verità. A parole forse appariamo come dei poveri mendicanti di misericordia. Ci illudiamo e ci convinciamo d’essere peccatori. Ma se qualcuno si azzarda a correggerci… Niente da fare, siamo “farisei e sadducei” nel cuore e nella mente.

Abbiamo sempre con noi un manuale di autodifesa con una serie di citazioni bibliche da usare come manganello, e criteri e regolette da gettare come una rete per imbrigliare il prossimo. In noi non vi è che “ipocrisia”, l’unico vero ostacolo alla conversione.

Per questo l’annuncio del Kerygma, la Buona Notizia della resurrezione di Gesù, inizia sempre con la denuncia dei peccati: “Voi avete ucciso l’autore della Vita inchiodandolo alla Croce. Ma Dio lo ha risuscitato”. Voi: tu ed io, assassini di Gesù. Noi abbiamo scelto Barabba, oggi, ieri, quasi sempre.

Se la Grazia di Dio non illumina e sigilla questa verità, non potrà esserci vera conversione. Il primo passo del ritorno a Dio, infatti, è riconoscersi peccatori. Abbandonare le difese, inginocchiarsi e chiedere perdono. Smettere di incolpare il mondo intero per i nostri peccati. Farla finita di giustificarci come fa ogni ideologia che sottolinea i condizionamenti sociali per cancellare la libertà e il peccato e così deresponsabilizzare l’uomo.

“Non basta dire di avere Abramo per Padre”, non si è figli di Dio perché abbiamo il certificato di battesimo. Un figlio è chi assomiglia al Padre, e, per questo, “fa frutti degni della conversione”. Questi, infatti, sono opera della Grazia, impossibili all’uomo della carne schiavo del peccato. E’ figlio di Dio chi compie le opere di vita eterna che testimoniano la natura divina che abita in lui.

Noi invece, siamo tutti una “razza di vipere” che strisciano nella polvere, figli della menzogna che ci ha detto il serpente. Abbiamo bisogno dell’annuncio della Chiesa che ci trafigga il cuore come accadde agli abitanti di Gerusalemme la mattina di Pentecoste all’ascoltare le parole di San Pietro. E’ necessaria una “voce” che, “gridi” come “un tuono nel deserto dei nostri peccati” (San Massimo), per destarci alla nostalgia del Paradiso.

Esiste in ciascuno, anche nelle vipere con la lingua biforcuta come noi, un “se stesso” dove si può “ritornare” come ha fatto il figlio prodigo. Un “se stesso” libero e incorrotto, anche in mezzo ai condizionamenti più gravi. Anzi, proprio al capolinea di ogni risorsa, quando strisciamo nella vita come Adamo ed Eva esuli e lontani dalla patria, possiamo ritornare a Dio.

Attraverso le ferite dei peccati possiamo oggi ritornare a quel frammento di innocenza originaria che il peccato non ha distrutto – la Verità che ci definisce figli nella verità che ci denuncia peccatori – per incominciare da lì il cammino di ritorno alla casa del Padre; la memoria dell’amore nel quale siamo stati creati è l’unica che può davvero innescare la conversione del cuore.

Anche questo significa che il “Regno di Dio è vicino”. E’ dentro di voi dirà il Signore… La predicazione di Giovanni Battista, immagine di quella della Chiesa, illuminando la realtà di ciascuno di noi, rivela anche l’immensa dignità che portiamo inscritta e che la menzogna del demonio che abbiamo accolto ha sepolto sotto un cumulo di pietre, i peccati che abbiamo commessi. “Da queste pietre”, infatti, Dio può oggi “far sorgere – risuscitare – figli di Abramo”.

Sì, “il Regno di Dio è vicino” a tuo figlio, al tuo matrimonio, alla relazione con suocera e nuora, a te stesso, pieno di contraddizioni inestricabili. Anche se nulla lo lascia pensare, anzi, esso è proprio lì, dove meno ce lo aspettiamo.

Ma è necessario che Giovanni Battista ce lo annunci. Egli è immagine di ogni profeta che, nella Chiesa, annuncia l’avvento del Messia. E’ cinto come lo furono i figli di Israele la notte di Pasqua, come Gesù mentre lavava i piedi ai discepoli, come Pietro sulla via del martirio; come Cristo è rivestito di pelle ruvida, segno di quella dell’uomo macchiata dal peccato e assunta per perdonarlo. 

La Chiesa si avvicina oggi a noi per annunciarci la Buona Notizia e invitarci a “preparare” il cammino al Signore: questo significa accogliere Giovanni, ascoltare la sua voce, riconoscere i segni che Dio ci mostra per mezzo di lui, per nutrirci con lui con il “miele” dell’amore di Dio. 

Attraverso la predicazione, è lo Sposo che bussa al nostro cuore. Convertirsi significa allora smettere di guardare se stessi, in un narcisismo spirituale che ci conduce alla disperazione. Convertirci è “uscire” come fecero “da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalla zona adiacente il Giordano”; e “confessare i propri peccati”, consegnando alle “acque” della misericordia il nostro uomo vecchio. 

Convertirci è aprire a Cristo, lasciando che “la scure” della Croce recida la “radice” maliziosa che ci incatena alle menzogne del demonio. Gli eventi sono la “scure” di Dio che recide quanto di più caro abbiamo. Caro alla nostra carne, consolazione dei sentimenti, ma veleno per l’anima della sposa di Cristo. 

Giovanni dà voce alla Parola dello Sposo, parola innamorata e gelosa. Come Booz fece nei riguardi di Rut, il Signore fa valere il suo diritto di riscatto: siamo suoi, nati in Lui e per Lui, nessun altro può appropriarsi della nostra vita. E’ Gesù che, attraverso la Chiesa, oggi getta i suoi sandali ai nostri piedi, nel segno che in Israele significava il riscatto di una vedova.

Giovanni “non è degno di portare i sandali” di Gesù: non è stato il Battista a riscattare Israele; non sono stati i sacerdoti, i catechisti, neanche la moglie e il marito, neppure i genitori a consegnare la propria vita in riscatto per noi. E’ stato Cristo, apparteniamo a Lui. Basta allora chiedere agli uomini quello che Cristo può darci…

Per questo la conversione è l’amore con il quale accogliere lo Sposo; Egli viene a riprendersi il suo “grano”, ciascuno di noi creato per essere frumento e pane per il mondo; nel “fuoco inestinguibile” della sua misericordia viene a “purificarci della pula” maligna che ci impedisce di amare; con il “ventilabro” della Croce viene a “pulire la “sua aia”, la Chiesa destinata ad essere il suo corpo nella storia, per colmarla del suo Spirito Santo nel quale possa risplendere senza macchia né ruga, testimone verace del suo amore.

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Antonello Iapicca

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