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Contro la crisi demografica servono politiche per la famiglia

Il demografo Alessandro Rosina analizza il fenomeno della denatalità in Italia, che si combatte non con l’immigrazione di massa ma con un cambio culturale e una politica più attenta

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Poco più di un anno fa, nel corso di un faccia a faccia televisivo, si consumò un episodio significativo circa il livello di negligenza della politica italiana rispetto alla crisi demografica. Di fronte alla proposta della leader francese del Front National, Marine Le Pen, di incentivare la maternità in Europa, Massimo D’Alema, già presidente del Consiglio italiano dal 1998 al 2000 e figura di spicco della politica italiana contemporanea, liquidò la questione parlando di “roba da Buonanima”. Il vecchio segretario del Pd si sottrasse così al dibattito incidendo in modo sprezzante il sempreverde marchio del fascismo mussoliniano.
La reazione di D’Alema la dice lunga sull’interesse della nostra classe dirigente dinanzi a un inverno demografico che sta seccando i rami del popolo italiano. Nuovo minimo storico di nascite dall’Unità d’Italia si è registrato lo scorso anno, con 488 mila neonati. Il tasso di natalità si attesta su 1,35 figli per donna, cifra che non assicura il ricambio generazionale. Misure come il bonus bebè, l’intenzione di incentivarlo da parte del ministro della Salute Beatrice Lorenzin, sono timidi segnali di coscienza da parte della politica. Di questo tema ZENIT ne ha parlato con il prof. Alessandro Rosina, docente di Demografia presso l’Università Cattolica di Milano, autore del libro “Demografia” (ed. Egea – 2014).
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Prof. Rosina, nel 2015 si è registrato un nuovo record negativo di nascite in Italia. Quali le cause di questo rigidissimo inverno demografico?
I motivi sono vari, ma i fattori principali sono tre. Le difficoltà dei giovani a conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine e formare in modo solido una propria. La difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia per le giovani coppie. La scarsa fiducia in una azione politica in grado di mettere in campo misure incisive e continuative a favore delle famiglie con figli. La crisi economica ha reso ancora più problematico questo quadro.
Eppure negli anni ’60 si parlava di “baby boom”. Ci sono stati dei punti di rottura culturali nella società che hanno contribuito ad invertire la tendenza demografica?
La società degli anni ’50 e ’60 era molto diversa. C’era il boom economico e la voglia di costruire una società nuova, che lasciava alle spalle guerra e deprivazione. C’era la prospettiva di un futuro migliore e il sistema di welfare pubblico era in espansione. Ci si poteva sposare in giovane età e bastava un unico stipendio come operaio per mantenere una famiglia con standard di vita migliori rispetto ai propri genitori. Oggi il percorso dei giovani verso la vita adulta, sia sul versante maschile che femminile, è più lungo e incerto, in un contesto culturalmente meno favorevole.
Della crisi demografica se ne parla da circa vent’anni. È stato fatto qualcosa per arginarla?
Qualcosa si è fatto, ma molto meno rispetto agli altri Paesi. Il sistema fiscale italiano continua a essere meno favorevole rispetto agli altri Paesi per le coppie con figli. Il rischio di povertà delle famiglie con oltre due figli a carico continua ad essere molto elevato. Le politiche a favore della formazione di nuovi nuclei e della scelta di aver figli continuano ad essere molto carenti. Qualche segnale positivo si era intravisto nelle regioni del Nord, ma la crisi ha congelato tutto.
Quali misure bisognerebbe adottare?
Ci sono almeno due punti sui quali dobbiamo investire maggiormente. Si tratta delle misure che favoriscono i percorsi di autonomia e assunzione di responsabilità dei giovani, come l’accesso alla casa e al lavoro stabile, e strumenti che favoriscano un equilibrio al rialzo tra lavoro e famiglia, come gli asili nido e i congedi di paternità.
Qual è la soglia minima di nascite all’anno, in Italia, per sopravvivere al declino demografico? Alcuni parlano di 500mila, ma è più una soglia psicologica, è un numero ancora troppo basso…
Più che il numero assoluto delle nascite è il numero medio di figli per donna che conta. Il livello minimo per un equilibrio tra generazione dei genitori e quella dei figli è due. Sotto un figlio e mezzo si parla di fecondità “molto bassa”. Se l’Italia non torna sopra a tale livello il rischio è di non riuscire a risollevarsi da una spirale negativa che vede le basse nascite di ieri erodere il numero di potenziali madri di oggi e quindi ancor più le nascite di domani. Con un avvitamento continuo verso il basso.
Si innalza l’età delle coppie che decidono di avere un primo figlio, ne derivano maggiori difficoltà in termini di fertilità. Oltre allo Stato sociale, per invertire la tendenza non sarebbe importante anche intervenire da un punto di vista culturale?
Sì. Bisognerebbe ridurre la lunga dipendenza dei giovani dalla famiglia di origine e consentire ai giovani di iniziare in età non tardiva a costruire una nuova famiglia. Servono strumenti di welfare adeguati, un Paese che torna a crescere valorizzando il ruolo delle nuove generazioni, un cambiamento culturale che porta a non considerare le politiche per la famiglia un costo ma un investimento collettivo per un più solido futuro.
Recentemente, in un incontro con la sua collega italiana Stefania Giannini, il ministro dell’Istruzione tedesco, Johanna Wanka, ha affermato che l’unico settore in cui la Germania non è cresciuta negli ultimi anni è la demografia. Ha detto inoltre che “i nuovi arrivi”, cioè gli immigrati, servono a supplire il vuoto delle nascite. Dobbiamo pensare che un domani gli immigrati sostituiranno le popolazioni autoctone europee?
Fortunatamente viviamo sempre più a lungo. Ma per rendere sostenibile una società più longeva e matura va anche rafforzata la base della piramide demografica. La risposta è quindi in una combinazione tra fecondità più vicina ai due figli per donna e una immigrazione più gestibile e meglio integrabile. Gli immigrati possono contribuire alla crescita, non possono di per sé supplire la carenza cronica di nascite.
Alcuni dati rivelano che qualche anno fa l’indice di fecondità per donna immigrata, in Italia, era di 2,5, oggi è sceso a 2,1. Allora anche gli immigrati, una volta inseriti in un contesto diverso dal loro originario, tendono a fare meno figli?
La fecondità degli immigrati tende nel tempo ad avvicinarsi a quella della popolazione autoctona, sia perché vivono in un contesto culturale diverso rispetto al paese di origine, adottandone progressivamente stili di vita e preferenze, sia perché si trovano con le stesse difficoltà poi nel conciliare lavoro e famiglia.
Quanto pesa sull’economia la crisi demografica?
Pesa molto. La carenza di politiche efficaci a favore della famiglia producono costi in termini di rischio di povertà per chi fa figli, di maggior esclusione femminile dal mercato del lavoro, di riduzione della popolazione giovane in età attiva per la denatalità passata, di maggior invecchiamento della popolazione con implicazioni sulla spesa pensionistica e sanitaria. I mancati investimenti sulla famiglia diventano costi che compromettono il futuro di tutti.

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Federico Cenci

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