Come superare la frattura tra fede e cultura

Intervista al Direttore della rivista culturale, “Humanitas”, Jaime Antúnez Aldunate

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ROMA, martedì, 25 ottobre 2005 (ZENIT.org).- Un decennio di dialogo tra fede e cultura. Si potrebbe definire in questo modo il decimo anniversario di “Humanitas”, una delle riviste culturali cattoliche più prestigiose al mondo, la cui redazione centrale si trova a Santiago del Cile.

ZENIT ha colto questa occasione per intervistare don Jaime Antúnez Aldunate, direttore di “Humanitas” sin dalla fondazione della rivista, dottore in filosofia, membro ordinario dell’Accademia di Scienze Sociali, Politiche e Morali dell’Instituto de Chile e membro corrispondente di altre accademie analoghe al di fuori del Cile come la Reale Accademia di Spagna per le scienze morali e politiche.

Sulla base dell’esperienza di questi anni, lei crede possibile superare il “divorzio” tra fede e cultura?

Jaime Antúnez: Con la grazia di Dio certamente questo e molto altro è perfettamente possibile. E una volta superato questo “divorzio”, si potrebbe avanzare decisamente verso una situazione – come la si è vista tante volte e in diversi luoghi nel corso dei duemila anni di Cristianesimo – nella quale la fede in Cristo costituisce la “chiave di volta” della cultura. L’intima relazione tra fede e cultura, del resto, è qualcosa che emerge nella genesi e nello sviluppo di tutte le più grandi e antiche civiltà.

Ma in un contesto fortemente secolarizzato come quello che domina il nostro tempo, nel quale in molti Paesi caratterizzati da un passato cristiano, tra cui anche quelli latinoamericani, si pongono in essere azioni politico-culturali aggressivamente laicistiche, non le pare questa eventualità assai lontana dalla realtà?

Jaime Antúnez: In realtà, proprio nella misura in cui risulta più difficoltoso e avverso il contesto dominante, sorgono persone e nuclei cristiani che prendono coscienza del problema e agiscono di conseguenza.

L’esistenza e lo sviluppo di una cultura è un qualcosa che non si limita e che anzi va molto al di là dello spettacolo, dell’evento o del pettegolezzo, che attualmente dominano fortemente l’attenzione dei mezzi di comunicazione. È un errore confondere questi aspetti con ciò che la filosofia propriamente definisce come cultura.

A differenza di tutto questo, i veri lineamenti di ciò che effettivamente è una cultura li troviamo in un orizzonte che ci trascende e che in questo senso ci invita ad essere autenticamente liberi. Lo ha detto meravigliosamente Giovanni Paolo II nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’ONU nel 1995: “qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell’uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri: il mistero di Dio”.

In che senso lei afferma che la cultura ci invita ad essere liberi? Non c’è in essa anche un condizionamento ideologico?

Jaime Antúnez: Al contrario. Un’ideologia, nel senso moderno della parola, è un qualcosa di diverso dalla fede, anche se tende a coprire le stesse funzioni sociologiche. L’ideologia è opera dell’uomo, un meccanismo attraverso il quale la volontà politica coscientemente plasma la tradizione sociale ai suoi disegni.

Ma la fede mira al di là del mondo dell’uomo e delle sue opere; porta l’uomo ad una dimensione reale più alta e più universale rispetto a quella del mondo temporale e finito al quale appartiene lo Stato e l’ordine economico. Per ciò stesso introduce nella vita umana un elemento di libertà spirituale che può avere una valenza creatrice e trasformatrice, sia nella vita interiore di ogni persona, sia nella cultura sociale degli uomini e nel loro destino storico.

Come avviene questo in una società prevalentemente liberale, come quella dominante oggi in quasi tutto il globo?

Jaime Antúnez: La cultura è una forma di vita organizzata che si appoggia ad una tradizione comune e che è animata da un ambiente comune. In questo senso è come la forma che la società assume. Quanto più forte è una cultura – così come la percepiamo ad esempio nell’arte rinascimentale e in tante manifestazioni attraverso la storia – tanto più essa forma e trasforma in modo più completo il contesto umano nel quale si incarna. Una società senza cultura è una società informe.

Credo che oggi le nostre società liberali in cui viviamo possiedano una caratteristica intrinseca a cui è necessario porre rimedio. Si tratta del fatto che queste società non offrono un senso concreto della vita, come ad esempio una giustificazione della sofferenza e dei timori della gente. Manca poi un progetto per l’avvenire, capace di mobilitare le coscienze, tanto che l’individuo è lasciato esclusivamente alla mercé dei propri pensieri individuali per ciò che concerne la sua realizzazione personale.

È una situazione che ci fa riflettere, perché è evidente che i grandi frutti della cultura e della civiltà sono sempre derivati dalla forza di questa dimensione spirituale e religiosa della realtà e che, nel suo venir meno, troviamo anche l’origine delle decadenze e perfino delle grandi tragedie di cui ci narra la storia.

Prendendo a prestito le parole di quel gran pensatore britannico della cultura e della storia che è Christopher Dawson, si potrebbe dire che quando decade la dimensione mistica e profetica di una cultura, la sua stessa religione “diventa secolare e assorbita nella tradizione culturale fino al punto da identificarsi con essa, e alla fine diventa solo una forma di attività sociale e talvolta persino serva o complice dei poteri di questo mondo”. Molto di questo avviene anche al giorno d’oggi.

Per quanto riguarda la cultura e alla luce di un contesto come quello attuale – unificato, organizzato e controllato dalla conoscenza e dalle tecniche scientifiche – quali sono le sfide che lei vede per la religione e in particolare per le grandi religioni universali?

Jaime Antúnez: Lo ha descritto ed esaminato lo stesso Dawson, secondo il quale – e questo lo aveva illustrato già negli anni Quaranta – queste sopravvivono e continuano ad influire nella vita umana, ma esse hanno perso quella relazione organica con la società, che si esprimeva nella sintesi tradizionale tra religione e cultura, questo sia in Oriente che in Occidente. Detto questo il filosofo britannico conclude che ciò che vediamo davanti ai nostri occhi è la secolarizzazione più totale, intensa e ampia che il mondo abbia mai conosciuto e che, in questo senso, ciò che sta emergendo come cultura non è in alcun modo una cultura in senso tradizionale, ovvero, non è un ordine che riunisce tutti gli aspetti della vita umana in una comunità spirituale viva.

La stessa valutazione vale anche per il contesto islamico?

Jaime Antúnez: Sì, perché a causa dei fatti subisce gli stessi effetti. Tra l’altro, in questo occorrerebbe tenere ben presente che la visione dell’Islam contemporaneo che ci viene offerta dai mezzi di comunicazione, più che l’immagine di una religione, è l’immagine di una ideologia. Un’ideologia nella quale i suoi fattori di violenza sono peraltro molto più occidentali che autoctoni.

Sulla base dell’unificazione tecnocratica oggi dominante, sarebbe possibile, senza dover rinunciare al progresso scientifico, recuperare l’unità spirituale della cultura?

Jaime Antúnez: Dovrebbe essere possibile perché quel progresso scientifico e tecnologico che oggi vediamo dominare la terra, poggia le sue basi e ha avuto il suo inizio e impulso iniziale in una cultura profondamente spirituale e religiosa quale quella cristiana occidentale.

Ma si tratterebbe di recuperare quella unità e non di sostituirla. E dico questo perché proprio l’assenza di tale unificazione caratterizza l’attuale era tecnocratica. Viviamo oggi con un predominio quasi incon
trastato della frammentazione. Abitiamo, in effetti, una società “acentrica”, come l’ha definita Luhmann, facendo con ciò riferimento alla mancanza di una rappresentazione del tutto nel tutto, come esisteva nelle società nelle quali la religione assumeva naturalmente questa rappresentazione. Così, ad esempio, nella società e nella cultura cristiana, la cui pietra angolare è Cristo, “rivelando il mistero del Padre e del suo amore, l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”, come insegna il Concilio e ricorda l’enciclica “Redemptor hominis”.

Considerato tutto questo – con le caratteristiche corrispondenti a ciascuna epoca – non sembra quindi azzardato affermare che, così come una società che perde la sua religione diventa presto o tardi una società che perde la sua cultura, appare verosimile affermare che è per eccellenza l’impulso religioso quello che fornisce la forza coesiva unificatrice di una società e di una cultura.

Cosa bisogna fare per recuperare questa unità?

Jaime Antúnez: Bisognerebbe anzitutto scartare le “soluzioni tecniche” proprie della nostra mentalità contemporanea. Piuttosto si tratta di una questione di coscienza. Di prendere coscienza per poi poter procedere in coscienza.

Coscienza, in primo luogo, della profondità e gravità di quel grido impressionante di Paolo VI quando arrivò ad identificare la grande tragedia del nostro tempo nella rottura o nel divorzio tra la fede e la cultura. Coscienza di ciò che ha detto Giovanni Paolo II quel giorno di maggio del 1982 quando ha affermato che la creazione del Pontificio Consiglio per la Cultura: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.

Coscienza poi del mandato affidato quindi anni fa alle Università cattoliche, dalla Costituzione apostolica “Ex Corde Ecclesiae” e dell’immensa speranza depositata in essa. Coscienza, infine, di ciò che ha detto Benedetto XVI a Subiaco, concludendo l’ultima conferenza pronunciata nella sua veste di Cardinale della santa Chiesa, evocando la figura di San Benedetto: “Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”.

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ZENIT Staff

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