Coloro che camminano verso la misericordia di Dio

Una riflessione sulla festa di Tutti i Santi, la commemorazione dei Defunti e la banalità di Halloween

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di Donata Fontana

ROMA, mercoledì, 31 ottobre 2012 (ZENIT.org) – Così come l’uomo si è sempre interrogato sul senso della vita e sul significato della morte, così ha sempre elaborato un modo di relazionarsi coi propri defunti, riservando loro un posto nella propria vita. Riflettiamo su un’interessante scoperta circa l’alba del genere umano, che da sola basta per rendere dubbiosa qualsiasi teoria evoluzionista di darwiniano sapore: l’uomo è l’unico animale sulla faccia della terra che, ad un certo punto della propria catena evolutiva, ha cominciato a seppellire i propri morti.

Non esiste altro babbuino di preistorica memoria ad aver compiuto un gesto di tale spessore, totalmente inspiegabile coi soli canoni della teoria della lotta per la sopravvivenza. La presa di consapevolezza della morte sembra proprio far parte del patrimonio fondante dell’uomo, che risiede nel nostro DNA perdendosi indietro nei millenni.

Può essere interessante indagare che rapporto ha avuto, e ha oggi l’uomo coi defunti. L’etimologia, innanzi a tutto: il termine italiano defunto deriva da un verbo latino che significa smettere una funzione, portare a termine un compito. Il defunctus vita era colui che aveva terminato la sua esistenza, compiuto il cammino della sua vita. Appartiene originariamente più al campo medico, e di qui si è diffuso, l’uso del termine morte  per intendere la cessazione dei processi vitali di un uomo, o di un animale.

Indietro nel tempo s’incontrano i tumuli funerari preistorici, le pire per la cremazione del periodo greco, piramidi e sarcofagi egizi, catacombe cristiane e mausolei romani. In molte culture si conservano in casa le statuette degli antenati, a protezione del focolare domestico. Nelle ville di famiglia si esibiscono i ritratti delle generazioni passate per riconoscere nei loro volti la storia del proprio sangue. La lapide funeraria, abbellita di fiori e fotografie, è oggi un decoroso luogo di riposo del defunto, ma anche un posto in cui i vivi possano fermarsi a ricordarlo. L’uomo si è sempre dato il modo e il tempo di pensare, invocare e pregare i propri defunti.

La letteratura, da sempre voce dell’anima di un popolo, ci racconta ad esempio di Achille e Priamo: dopo l’uccisione di Ettore, l’eroe greco restituisce al sovrano di Troia il corpo del figlio, con delle parole che Vincenzo Monti ci traduce con commozione. Scelte dal bottino ampolle di profumo e stoffe pregiate, Achille dà ordine alle sue ancelle di curare e abbellire il corpo del giovane nemico, sconfitto in battaglia, e il gran Pelide istesso / alzatolo di peso, in sul feretro collocollo. Se ne prende cura Achille stesso, per primo.

Vero è che Achille infierisce, qualche verso addietro, sul corpo di Ettore esanime e lo trascina attorno alla cinta muraria di Troia, legato al proprio carro, ma questo gesto appartiene alla pagana visione di vendetta nei confronti del nemico vinto mentre era vivo, e nulla ha a che fare col non rispetto per il defunto. Infatti, sarà ancora Achille a chiedere a Priamo per quanti giorni desidererà di piangere per suo figlio, così da ordinare una tregua: A’ suoi funebri onori / quanti giorni vuoi? Io terrò l’armi in posa / per altrettanti, e le schiere frenerò.

Curiosamente l’uomo sembra non frenarsi dal provocare la morte al proprio simile, ma non ne discute una qualche forma di rispetto dopo la dipartita. E’ d’obbligo un cenno a Ugo Foscolo, che nei suoi Sepolcri ci spiega in versi perché gli uomini continuano a sentire vicini i propri defunti, anche dopo che il velo della morte li ha separati: è in virtù di una corrispondenza di amorosi sensi che si vive con l’amico estinto / e l’estinto con noi. E questa corrispondenza di ricordi affettuosi e pensieri devoti è nientemeno che definita come celeste, il che, se non permette di svolgere un discorso trascendente, quanto meno evoca una dimensione che poco ha di terreno. Questo vale per i grandi della storia, citati da Foscolo, ma anche per quegli sconosciuti sepolti in un piccolo cimitero di campagna, come canta, nei versi della sua Elegy  written in a country churchyard, Thomas Gray, nel 1751.

Che dire però del ricordo funesto di quei defunti che non si vuole vicino, quegli spiriti che da sempre si ha paura di nominare pena il rievocare fantasmi, zombie, influssi malefici e quant’altro la tradizione delle culture ci ha parimenti tramandato? E veniamo ai giorni nostri e al dibattito attuale: perché dire sì alla celebrazione del giorno di tutti i santi-tutti i defunti, e perché dire no ad Halloween?

Il giorno di Halloween (che anche in inglese antico significa notte di tutti i santi) affonda le sue origini nella tradizione celtica e druidica delle isole inglesi. Naviga in America con le migrazioni degli irlandesi e, divenuta un fenomeno commerciale, rimbalza di nuovo in Europa. Anticamente la concezione del tempo celtico era ripetitiva e circolare, basata sul ciclo delle stagioni. Con il finire dell’autunno i campi si addormentavano, il bestiame veniva trasferito nelle stalle, la terra si faceva fredda e il cielo cambiava colore. Halloween rappresentava una sorta di capodanno agricolo, ed ecco spiegato anche l’uso dei colori tipici delle decorazioni di questo periodo: l’arancio degli alberi autunnali e il nero della terra.

La tradizione inglese racconta anche che in questo periodo di transizione, il velo che divideva i vivi dai defunti si sollevava un poco permettendo agli spiriti dei morti cercare un corpo in cui dimorare di nuovo. Gli spiriti buoni dei cari defunti erano ben accetti, e accanto al focolare si lasciavano dolci e bevande di accoglienza. Ma, al contrario, se gli spiriti appartenevano a defunti dalla vita violenta ci si travestiva in modo terrificante, acconciando zucche con facce demoniache al fine allontanare queste anime vaganti dalla propria casa. Così contestualizzata la tradizione di Halloween ha un sapore nordico e sicuramente superato, ma conferma il connaturato bisogno dell’uomo di legare a sé i propri defunti di cui sente la mancanza, e, nel contempo, allontanare il funesto ricordo di coloro che in vita hanno recato dolore.

Ma perché oggi poco resta di tutto questo, e si lascia soltanto spazio a una banalizzazione della morte, a una generale voglia di esorcizzarne la paura, quasi a ridurne in ridicolo il significato? E’ chiaro che oggi non si è in grado di guardare alla morte come evento naturale, la si pretende fuori dalla vita e il più lontano possibile dal quotidiano. Se proprio ci si deve soffermare a pensarla per un’intera giornata, è bene che questa passi tra scherzi di cattivo gusto, festini horror e tetre parate di persone tristemente mascherate. Come a dire: io ci scherzo sopra, non ne ho paura.

Sicuramente possiamo osservare come ci si stia dimenticando dei morti, per pensare solo alla morte. La giornata di Halloween per i celtici era un giorno di riposo e per la Chiesa cattolica è festa di precetto: ma ora pare non ci sia più tempo per il ricordo e per la preghiera, questa giornata acquista significato perché si fa festa (la “festa di Halloween” oramai viene “celebrata” perfino negli asili e ci traveste tutti come fosse carnevale!).

Con la rivelazione di un amore che vince la morte con la resurrezione, il cristianesimo porta a compimento le passate tradizioni. Amalario, nel secolo IX, poneva già la memoria dei defunti successivamente a quelli dei santi che erano già in cielo. È solo con l’abate benedettino Sant’Odilone di Cluny che questa data del 2 novembre viene dedicata stabilmente alla commemorazione di tutti i fedeli defunti; ma già sant’Agostino lodava la consuetudine di pregare per tutte le anime, anche al di fuori dei loro rispettivi anniversari, proprio perché non fossero trascurati quelli senza suffragio. La Chiesa celebra in queste due date consecutive l’inizio della vera vita, que
lla eterna che comincia dopo la morte, di quanti ci lasciano il loro esempio di uomini, di fedeli e di santi. Il cristianesimo ricomprende la morte nelle vicende naturali della vita terrena; mostra dopo di essa il tempo di una vita più piena ed eterna.

E la via per ordinare di senso profondo la giornata di commemorazione dei defunti è solamente una: la preghiera. La speciale liturgia di questa giornata ci rammenta il nostro posto, il nostro “compito”: la devozione. Non sta a noi giudicare buona o cattiva un’anima, propizio o funesto il ricordo di un defunto, temendone la visita quasi come non esistesse un ordine e un senso tra i fenomeni della vita. C’è già Qualcuno, che alla fine dei tempi, giudicherà le anime di tutti i defunti; capace nella sua grandezza di perdonare e salvare le anime dei peccatori. Noi che restiamo dovremmo saperci riprendere del tempo, almeno durante questa giornata dell’anno liturgico, per la preghiera sincera di intercessione per tutte le anime di quei defunti che camminano verso la misericordia di Dio. 

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ZENIT Staff

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