Mons. Bruno Forte during the presentation of instrumentum laboris in the vatican press room - 23 June 2015

Mons. Bruno Forte - Foto ©ZENIT

Clima natalizio – Il dolore e il “pensoso palpito” di Ungaretti

31 dicembre 2017

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

Clima natalizio

Il dolore e il “pensoso palpito” di Ungaretti

(Il Sole 24 Ore, Domenica 31 Dicembre 2017, 1 e 10)

di

Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti – Vasto

          Quale significato può avere il Natale per le donne e gli uomini di questo cambiamento d’epoca, in cui ci è dato di vivere? Per rispondere a questa domanda ricorro alla testimonianza di un poeta, Giuseppe Ungaretti, fra le voci più alte della letteratura italiana del Novecento. Scelgo dei versi pubblicati nel 1947 nella raccolta intitolata Il dolore, indelebilmente segnata dalla morte del figlio Antonetto, avvenuta nel 1939. Quei versi erano certo anche eco del dolore collettivo di quegli anni, sconvolti dalla guerra mondiale, ma fu l’ultimo addio al figlio a influire in profondità sul Poeta, perché – come egli stesso aveva scritto alcuni anni prima – “la morte / si sconta / vivendo” (Sono una creatura, 5 agosto 1916, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, I Meridiani, Mondadori, 41). Da quell’evento la poesia di Ungaretti uscì segnata da una sorta di rarefazione della parola, quasi a configurarsi come una scultura in cui l’arte più esercitata divenne quella del togliere materia. Furono gli anni del ritorno del Poeta alla fede, preannunciato da testi come “La preghiera” e “La pietà”, scanditi da affermazioni struggenti: “E Tu non saresti che un sogno, Dio?” … o l’altra, riferita alla nostalgia di eterno presente in ogni cuore: “In noi sta e langue, piaga misteriosa” (La pietà, 1928, ib., 170). È appunto nella raccolta Il dolore che s’incontra fra i versi di Mio fiume anche Tu questa struggente invocazione al Figlio di Dio, fatto uomo per noi: “Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo, / Santo, Santo che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / Per liberare dalla morte i morti / E sorreggere noi infelici vivi, /  D’un pianto solo mio non piango più, / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri”. Vorrei cogliere in questo canto di disperato, fiducioso amore tre spunti che possano aiutarci a riflettere sulla perenne attualità del Natale.

          Il primo spunto lo colgo in quella caratterizzazione che il Poeta dà del Figlio venuto fra noi: “pensoso palpito”. Mentre la frase seguente – “astro incarnato nell’umane tenebre” – risulta del tutto coerente con la fede cristiana nell’incarnazione di Dio, colpisce l’audacia di quel “palpito” – battito di cuore divino segnato da amore – che viene definito “pensoso”: con la forza dell’evocazione che solo la poesia sa dare, lo sguardo s’affaccia sull’abisso di un disegno eterno, in cui davanti al rifiuto della Sua creatura l’eterno Amore si fa appunto “pensoso”, quasi a ponderare la via migliore, la più audace e la più esigente sul piano dell’amore stesso, per redimere la creatura caduta, per farla sentire comunque riconosciuta e amata, per vincere il tragico “no” opposto all’amore con la forza di un amore più grande. Viene così evocata una sconcertante esperienza divina, quella del dolore davanti al male del mondo, un dolore che – pervaso com’è d’amore nonostante tutto – vuole “inventarsi” un’altra strada per bussare al cuore della creatura e attirarla all’incontro con il suo Dio. È l’intuizione poetica di un mistero di sofferenza, nascosto negli abissi della divinità: come afferma l’Enciclica Dominum et vivificantem (1986) di Giovanni Paolo II, il Libro sacro “sembra intravvedere un dolore, inconcepibile e inesprimibile nelle ‘profondità di Dio’ e, in un certo senso, nel cuore stesso dell’ineffabile Trinità… un paradossale mistero d’amore: in Cristo soffre un Dio rifiutato dalla propria creatura… ma, nello stesso tempo, dal profondo di questa sofferenza lo Spirito trae una nuova misura del dono fatto all’uomo e alla creazione fin dall’inizio. Nel profondo del mistero della Croce agisce l’amore” (nn. 39 e 41). La sofferenza divina – quella che rende “pensoso” il palpito del grande Cuore – non è, dunque, segno di debolezza o di limite, come la sofferenza che si subisce perché non è possibile farne a meno: nelle profondità divine c’è una sofferenza attiva, liberamente accettata per amore. La Croce non proclama la bestemmia di un’atea morte di Dio,

che faccia spazio alla vita dell’uomo prigioniero della sua autosufficienza, ma la buona novella della morte in Dio, perché l’uomo viva della vita del Dio immortale nella partecipazione all’amore trinitario, resa possibile grazie a quella morte. Il “palpito” del Cuore amante dei Tre che sono Uno, è perciò “pensoso”: il Dio che è Amore “non per scherzo ci ha amati!” (Angela da Foligno).

          Un secondo spunto di riflessione che viene dai versi di Ungaretti è quello che nel Natale ci fa contemplare un Totalmente Altro tutt’altro che lontano e straniero rispetto alla nostra fragilità: “Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli” è quel Dio Bambino, che nella mangiatoia del presepe, riscaldato dall’amore di Maria e di Giuseppe e dal respiro di due povere bestie, chiamate a rappresentare il creato che accoglie il Creatore, è veramente uno di noi, l’Eterno che è entrato nel tempo, l’Infinito che ha voluto abitare il minimo che noi siamo, che noi abitiamo. L’umanità di Dio veniva riscoperta negli anni fra le due guerre e in quelli immediatamente seguiti ad esse da una teologia che prima, sedotta dal pensiero dell’Ottocento liberale e borghese, aveva voluto rappresentare piuttosto la grandezza e l’onnipotenza dell’Altissimo, quasi a contrastare così le presunzioni folli delle ideologie e il carico di violenza da esse prodotto. È la stessa “umanità di Dio” che Ungaretti canta nel “Santo, Santo, che soffri”, venuto “per riedificare / umanamente l’uomo”. Il divino Bambino è anzitutto la rivelazione di questa fragilità assunta per amore, di questa tenerezza divina, che parla il linguaggio degli uomini e fa propria la loro caducità, per abitarla e salvarla dal di dentro. Infine, il Poeta coglie il senso trascendente e ultimo del Natale: il Verbo nella carne fragile del presepio è venuto “per liberare dalla morte i morti / e sorreggere noi infelici vivi”. Dio s’è fatto uomo perché l’uomo potesse farsi Dio, partecipando alla bellezza e alla gioia della vita divina senza fine. Il Natale è buona novella perché l’eternità è entrata nel tempo, aprendo agli abitatori del tempo la possibilità altrimenti impossibile di divenire partecipi dell’Eterno. La vita ha abitato la morte perché il pungiglione velenoso di questa non avesse più l’ultima parola. Il dolore non è più condanna individuale senza redenzione: “D’un pianto solo mio non piango più”. Un Altro porta con noi la passione del mondo e il peso dell’umana fragilità, altrimenti senza scampo: è il “Cristo, pensoso palpito, / astro incarnato nell’umane tenebre, / fratello che t’immoli / perennemente per riedificare / umanamente l’uomo”. A Lui può volgersi l’invocazione dell’immenso dolore del mondo, del dolore del cuore: “Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri”. E che il Santo, eterno e benedetto, sia il grande compagno della sofferenza umana è la buona novella del Natale, che ci assicura come l’ultima parola sarà per noi, come è stata per Lui, non la parola della morte, ma quella della vita, non il canto delle lacrime, ma quello dei risorti e della loro speranza vittoriosa.

@ Mons. Bruno Forte

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione