Capire la crisi

Massimo Calvi spiega i limiti di un sistema utilitaristico

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

del prof. Leonardo Becchetti
Dipartimento di Economia dell’Università di Tor Vergata (Roma)

ROMA, sabato, 28 luglio 2012 (ZENIT.org).- Abbiamo imparato la lezione della crisi? Credo  proprio di no. L’accurato e stimolante volume “Capire la Crisi” scritto da Massimo Calvi e pubblicato da Rubbettino (http://www.store.rubbettinoeditore.it/capire-la-crisi.html) cerca di fare memoria su un episodio chiave della storia  economica degli ultimi decenni che ancora oggi non ha smesso di produrre i suoi effetti negativi sul benessere del pianeta. I calcoli non sono semplici perché si tratta di  sommare grandezze diverse, come le iniezioni dirette di capitale nelle banche e le risorse messe a disposizione in fondi di garanzia (nel caso di fallimento delle stesse), ma si stima che per salvare il sistema bancario e finanziario dalla catastrofe, governi e banche centrali abbiano speso una somma tra 5.000 e 10.000 miliardi di dollari. Con questi soldi avremmo potuto ripagare più volte il nostro debito pubblico e assicurare per un centinaio di anni l’istruzione elementare obbligatoria nel mondo.

Anche a livello micro la crisi ci insegna molto. In una fulminante battuta di uno spettacolo teatrale dal titolo PopEconomy, alla domanda «quanto tempo impiega un professore di scuola a guadagnare la somma che l’amministratore delegato di Lehman Brothers (la banca d’affari americana non salvata e lasciata fallire all’epicentro della crisi) percepiva l’anno prima del crollo della sua azienda», la risposta è: 4.500 anni. L’insegnante in questione per raggiungere quella somma avrebbe dovuto iniziare a lavorare dall’epoca dei sumeri. Poiché non si tratta di fare del moralismo, siamo tutti disposti ad accettare differenze significative nelle remunerazioni tra lavoratori, purché riflettano diverse produttività e capacità degli stessi di contribuire alla creazione di valore per la collettività. Se guardiamo a quel differenziale salariale, in tale prospettiva, ci accorgiamo che le cose stanno proprio all’opposto. L’insegnante contribuisce con il suo lavoro ad aumentare la capacità dei suoi alunni di essere produttivi in futuro (come è ben noto dalla letteratura sui rendimenti della scolarizzazione, ogni anno in più di istruzione accresce significativamente il proprio reddito in tutti i Paesi del mondo), pur non appropriandosi dei benefici che crea. L’amministratore delegato della Lehman, invece, ha contribuito a quella drammatica distruzione di valore economico che è stata la crisi finanziaria globale.

La crisi rappresenta dunque l’epilogo di una finanza fuori controllo. Di banche che, orientate alla massimizzazione del profitto (e quindi obbligate a creare sempre maggiori utili per gli azionisti), finiscono, necessariamente, per abbandonare l’attività creditizia tradizionale (attività a bassi rendimenti) e per dedicarsi a iniziative speculative che promettono rendimenti più elevati (anche se con rischi maggiori). Di regolatori che colpevolmente eliminano i limiti alle capacità di indebitamento delle banche e alla crescita dimensionale delle stesse, generando dei «mostri troppo grandi per fallire» con una sproporzione di 30 a uno tra debito e capitale proprio e uno squilibrio tra debiti a breve termine e attivi a lungo termine.

La cosa che più impressiona è come la riflessione sulla crisi abbia la memoria corta.

Vediamo di ricapitolare. Le banche americane decidono consapevolmente di concedere mutui a cittadini che difficilmente potranno restituire il denaro ricevuto perché, immediatamente dopo la concessione del mutuo, esse possono rivenderlo a terzi che, a loro volta, accumulano un gran numero di questi prestiti di dubbia qualità e li mescolano con prestiti di qualità migliore, sperando così di aver creato delle attività finanziarie (derivati del credito) ad alto rendimento e a basso rischio (una cosa che è l’equivalente della violazione della legge di gravità in fisica). L’idea di diversificare il rischio distribuendolo ignorava che la debolezza principale di quell’operazione era nel non considerare che il successo di tutti i prestiti dipendeva dai prezzi delle abitazioni (che erano in bolla speculativa). Il crollo dei prezzi delle abitazioni ha fatto saltare tutto il sistema. Ancora oggi, i derivati del credito, di cui i bilanci delle grandi banche internazionali sono pieni, valgono meno del 10 per cento del loro prezzo di acquisto. Dunque, la crisi nasce da precisi errori di valutazione degli intermediari finanziari che non capiscono, o fanno finta di non capire, il problema e da colpevoli omissioni di controllo dei regolatori. Eppure, tutta l’attenzione e le critiche dell’opinione pubblica si concentrano oggi sugli sprechi degli Stati e della politica. È come se un benefattore decidesse di salvare un malato in condizioni gravi con una trasfusione (le banche centrali che iniettano liquidità e gli Stati che aumentano i loro debiti per salvare le banche) e poi finisse gravemente indebolito e attaccato dallo stesso malato che ha salvato. E l’opinione pubblica, che osserva la scena, se la prendesse prevalentemente con il benefattore ora in difficoltà. Sono i più deboli, attraverso i tagli al welfare, a pagare i costi di una crisi che non hanno in nessun modo contribuito a provocare.

Poco si è fatto e poco si sta facendo per evitare una nuova catastrofe economica, modificando gli squilibri e le condizioni che hanno portato alla prima. C’è bisogno di stabilire tetti molto severi alla leva dei grandi intermediari finanziari, di vietare il trading in proprio delle banche commerciali con i soldi dei clienti, separando la finanza casinò da quella che finanzia i cittadini e le imprese.

È necessario regolamentare l’uso dei derivati, soprattutto di quelli «Over the counter» (cioè scambiati fuori dalle Borse ufficiali) e servono meccanismi attraverso i quali i grandi intermediari finanziari contribuiscano a pagare i costi della crisi. C’è, infine, bisogno di un altro modello di banca. Una banca che vada oltre l’obiettivo di massimizzazione del profitto e che superi quelle contraddizioni interne che la portano inevitabilmente all’autodistruzione. La storia della crisi ci insegna che buona parte delle grandi banche internazionali, d’affari e non, sono tecnicamente fallite. Di fatto, esse non si sono dimostrate in grado di badare alla propria sopravvivenza, a causa di un meccanismo perverso di incentivi al loro interno che ha spinto alla ricerca di rendimenti (e rischi) sempre più elevati una serie di attori chiave (amministratori delegati e trader), i quali non pagano fino in fondo le conseguenze e i costi in caso di fallimento (basti pensare al fenomeno delle liquidazioni miliardarie dei manager). Serve allora un sistema di regolamentazione che favorisca la biodiversità organizzativa e dia più fiducia a banche etiche e cooperative le quali, se rimaste fedeli ai loro principi, in virtù della loro governance e di obiettivi diversi, hanno vissuto meglio la crisi e oggi sono più pronte a dare ossigeno a imprese e cittadini per far ripartire l’economia globale.

In quest’opera di riforma nessuno vuole demonizzare gli strumenti della finanza in quanto tali. I derivati, ad esempio, nascono con nobili finalità di copertura dal rischio e contribuiscono, se usati a tal fine, a favorire investimenti che altrimenti non sarebbero effettuati in mancanza di copertura dal rischio cambio e dal rischio tasso d’interesse. Ma mentre nell’economia reale la copertura dal rischio non diventa attività speculativa, nella finanza questo accade. Insomma, se nell’economia reale stipulo una polizza per assicurarmi dal furto della mia auto, in finanza molta gente compra questa stessa polizza sperando che la probabilità che mi rubino l’automobile aumenti per potere rivenderla e realizzare un guadagno in conto capitale.

Tutte le considerazioni sviluppate sopra ci dicono ch
iaramente che il genio è uscito dalla lampada ed è fuori controllo. Farcelo rientrare è impresa titanica: il problema è purtroppo ancora a monte e non è disgiunto dalla consapevolezza di quanto è accaduto. È proprio per tutti questi motivi che la preziosa opera di ricostruzione di Massimo Calvi è fondamentale per fare memoria. Perché non si dimentichi da dove tutto è nato, da quali cause profonde, e perché si possa stimolare finalmente una riflessione per cambiare quelle regole che rendono i nostri sistemi socioeconomici sempre più rischiosi e insostenibili.

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione