Benedetto XVI e Obama: la religione come fattore di pace

Intervista al filosofo francese Henri Hude

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PARIGI, giovedì, 10 settembre 2009 (ZENIT.org).- Nell’ultimo numero della rivista HUMANITAS, della Pontificia Università Cattolica del Cile, si può leggere un saggio del filosofo francese Henri Hude, membro del Consiglio dei collaboratori di questa pubblicazione cilena, in cui l’autore analizza, dalla prospettiva della filosofia morale politica, i discorsi di Papa Benedetto XVI e del presidente Barack Obama sul Medio Oriente.

Hude, ex professore dell’Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, e attuale direttore del Centro di ricerca etica della Scuola Saint-Cyr per ufficiali militari in Francia, nella sede romana della Pontificia Università Lateranense ha parlato con ZENIT su questo saggio che è consultabile sul sito Internet di UMANITAS (www.humanitas.cl).

Perché questo parallelismo tra i discorsi di Benedetto XVI e quelli di Barack Obama?

Henri Hude: L’umanità ha bisogno di intraprendere “un nuovo inizio”, non solo in Medio Oriente. Benedetto XVI e Barack Obama lo affermano usando anche la medesima espressione. È la loro prima e ultima parola. La mèta verso la quale punta questo “nuovo inizio” è la pace universale. Entrambi vogliono puntare senza utopismi in questa direzione.

Questo “nuovo inizio” è possibile solo – secondo entrambi – se si tiene seriamente conto della religione. Entrambi prestano, conseguentemente, particolare attenzione alle condizioni culturali e spirituali di questa pace universale. Le loro prospettive sul futuro – distinte, ma che si intersecano – suggeriscono una possibile ricomposizione positiva del panorama globale, spirituale e temporale.

Qual è, a suo avviso, l’apporto essenziale dei loro interventi paralleli?

Henri Hude: Dire che la religione può essere un fattore di pace. Barack Obama pensa che le religioni possano convivere armoniosamente sottomettendosi alla norma di una filosofia che assicuri eguaglianza e libertà alle opinioni e alle tradizioni, nel seno di una costituzione politica diretta a raggruppare la pluralità in unità, senza annullarla. “E pluribus unum”. E data questa condizione è molto positivo il loro apporto alla società.

A mio avviso, Benedetto XVI esprime in modo migliore come è possibile operare questo modello teorico senza degradarlo in utopia o manipolazione. Benedetto XVI parla meno della religione in generale, affrontando invece, in modo metodico, con realismo e rispetto, le diverse relazioni presenti: tra il Cristianesimo e l’Illuminismo; tra l’Illuminismo e l’Islam; tra il Cristianesimo e l’Islam. Certamente tiene conto anche dell’Ebraismo.

Lei include l’Illuminismo o i Lumi tra le religioni?

Henri Hude: Certamente. Questo è vero anche per l’Illuminismo nella sua tappa attuale, interamente relativista. Ci diciamo che sarebbe più semplice riconoscere reciprocamente le nostre “opinioni” senza cercare una “verità assoluta”… ma non è così semplice, poiché se non vi fosse una verità assoluta, ciò stesso diverrebbe una verità assoluta e pertanto continuerebbe ad esserci una verità assoluta. E questa ultima “verità assoluta” non sarebbe puramente una regola pratica utile per la tolleranza, bensì una credenza metafisica determinata, legata a tutto un sistema di autorizzazioni e proibizioni.

Se da ogni spirito individuale può sorgere una verità assoluta, ci troviamo in pieno politeismo o panteismo. Di conseguenza, è del tutto ragionevole che l’Illuminismo ponga alle religioni questioni sulla tolleranza, la libertà religiosa e le guerre di religione, ma solo se include se stesso e in condizioni di eguaglianza nel dispositivo problematico che pone, in quanto la Ragione dei Lumi, se ben approfondita, è anch’essa una delle possibili idee dell’Assoluto, della Divinità, accanto a tutte le altre.

Che interesse possono avere questi “profili paralleli” in relazione all’opera di evangelizzazione?

Henri Hude: L’evangelizzazione è possibile solo se i cristiani si sentono orgogliosi della loro fede e non colpevolizzati a causa della stessa. Benedetto XVI discolpa i cristiani, ma anche i musulmani e gli ebrei. Un’anima colpevolizzata non osa parlare pubblicamente della sua fede. Perché? Benedetto XVI lo dice: “Alcuni asseriscono che la religione è necessariamente una causa di divisione nel nostro mondo; e per tale ragione affermano che quanto minor attenzione vien data alla religione nella sfera pubblica, tanto meglio è” (discorso alla Moschea al-Hussein bin-Talal di Amman, 9 maggio 2009). E l’argomento posto a riprova di questo è l’esistenza delle guerre di religione, considerate inevitabili.

Barack Obama e Benedetto XVI affrontano questo problema con franchezza e profondità. Da qui nascono due idee molto diverse, ma in parte convergenti, della religione come fattore fondamentale di pace. Questo tende a discolpevolizzare il cristiano in relazione a tale accusa.

Qual è la differenza più grande tra i due approcci?

Henri Hude: Il Presidente nordamericano considera le religioni dal punto di vista politico, sebbene non sia sprovvisto di sensibilità religiosa, e aiuta a far progredire la riflessione pubblica facendo sentire di discernere chiaramente la complessità del problema. Ciò detto, difficilmente va al di là di una retorica pacifista interreligiosa, calda ma un po’ vaga, la cui efficacia negli spiriti religiosi avrà una portata mitigata e sarà spesso funzione del suo grado di secolarizzazione.

Certamente, la dissoluzione delle religioni nell’ambiente secolarizzato e relativista, che Obama non auspica, sarebbe la soluzione immediata ai problemi derivanti dalla loro esistenza. Ma, negli stessi termini, la dissoluzione del secolarismo sarebbe allo stesso modo una possibile soluzione rispetto ai problemi che questo pone alle religioni… Come andare al di là di queste pesudo-soluzioni?

Il Papa, da parte sua, affronta le religioni dal punto di vista religioso e considera le difficoltà relative alla loro coesistenza politica (che è un fatto innegabile) in primo luogo come un problema religioso, che si presenta a ciascuno in modo serio all’interno della coscienza religiosa. Non parte dalle esigenze della politica democratica o della pace mondiale considerate come assoluti, ma dalla ricerca della volontà di Dio in ogni situazione. È anche per questo motivo che la sua filosofia politica è più profonda e penetra in maggior misura nel concreto delle condizioni necessarie alla pace.

Ma cosa significa allora la chiamata alla pace interreligiosa se questa non è lanciata unicamente in nome dello spirito dei Lumi?

Henri Hude: È una buona domanda. Occorre che questa chiamata non implichi alcuna contraddizione alle convinzioni fondamentali di ciascuna delle parti. Altrimenti sembrerebbe come una chiamata all’apostasia. Per questo è necessario un dialogo in totale franchezza.

Si supponga, per esempio, che Dio avesse rivelato che la guerra santa è un dovere religioso – non mi pronuncio qui sulla questione in sé; è solo un’ipotesi di lavoro. Cosa produrrebbe in un “vero credente”, in questo caso, l’accusa di Dio non politicamente corretto? La chiamata alla pace, formulata in stile occidentale si presenterebbe incomprensibile.

D’altra parte, potrebbe essere più efficace e leale far notare a questo tipo di credente che, nel nuovo contesto globale, una guerra santa, soprattutto se con l’impiego di mezzi spaventosi, avrebbe un carattere del tutto controproducente e condurrebbe all’indebolimento della religione facendola apparire irreligiosa rispetto alla libertà e alla pace. Così è stato per l’amara esperienza della cristianità europea dei secoli XVI e XVII. Si tratta ovviamente solo di un esempio.

Una chiamata alla “tolleranza” è pertanto del tutto superficiale se consiste nel dare ai teisti una lezione dal punto di vista politeista o panteista. Si supponga
di chiedere ai musulmani di accettare di considerare Allah come uno degli dei del Pantheon relativista: sarebbe uno scherzo di cattivo gusto e la prenderebbero molto male. D’altra parte, la stessa reazione l’avrebbe un cristiano. Perché, chi è secondo la fede il discendente di Abramo? Uno che pensa di essere stato chiamato da Dio a una rottura decisiva con il panteismo e il politeismo.

Per questo motivo, la predica secolarista su questa vaga tolleranza relativista non promuove alcun dialogo serio e profondo. Solo tende a dissolvere le religioni, riducendole al silenzio, colpevolizzandole o sollevandole con la violenza contro l’idea stessa di tolleranza.

Per stabilire un dialogo serio e di pacificazione, una persona con queste idee dovrebbe iniziare dicendo: “sono politeista – o panteista – e ritengo che la mia credenza sia quella vera. Discutiamone insieme”. La chiamata a un dialogo profondo presuppone la verità e accetta la tragicità del dissenso sull’essenziale.

Ma come possiamo vivere insieme in pace se ci separano dissensi su ciò che è fondamentale e su cui ci rifiutiamo di relativizzare?

Henri Hude: Ciò che permette la coesistenza è la stima e l’amicizia, attraverso la comune caratteristica di una vita virtuosa e moralmente seria. In questo modo fu edificato il consenso negli Stati Uniti, tra i filosofi e i credenti, a partire dall’Indipendenza. E precisamente questo consenso fu fatto a pezzi a partire dalla decisione sull’aborto. Barack Obama vorrebbe ricostruirlo. Ma come?

Se lo spirito illuminista abbandona il dovere kantiano a beneficio dell’edonismo e del relativismo etico, la democrazia “illuminata” non si struttura più intorno alla libertà che eleva, ma intorno a quella che degrada, e allora non ci sarà più un terreno comune tra questa e le religioni, né tra questa ed un Illuminismo serio. In questo senso, i problemi morali della vita diventano cruciali. Se lo spirito dei Lumi rinuncia all’esigenza rigorosa del dovere, si degrada ad un lassismo intollerante che porta allo scontro tra le civiltà.

Perché esistono le guerre di religione?

Henri Hude: È necessario intendere questa espressione nel senso più ampio. Le guerre tra ideologie provenienti dallo spirito dei Lumi o tra una religione e una determinata ideologia, sono anch’esse guerre di religione in senso lato. Il Papa avverte che le guerre di religione esistono in senso ampio, ma non sono necessariamente molto religiose. “Spesso [è] la manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici, il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni” (discorso alla Moschea al-Hussein). Si potrebbe invocare qui la testimonianza del filosofo Montaigne nei suoi “Saggi”, che visse in Francia ai tempi delle guerre di religione.

Se con l’azione del Generale Petraeus in Iraq, sono molto migliorati lì gli interessi degli Stati Uniti, è perché quest’azione si è fondata giustamente sulla base di un’analisi molto più sottile del carattere di un conflitto che implica una dimensione religiosa, come spiega il professor Ahmed S. Hachim. Inoltre, Benedetto XVI elogia i dirigenti giordani per “far sì che il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura” (ibid).

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ZENIT Staff

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