Benedetto XVI e la lotta contro l’AIDS (parte II)

Intervista a mons. Tony Anatrella

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di Anita S. Bourdin

ROMA, martedì, 5 maggio 2009 (ZENIT.org).- Chi mira a lasciare intendere che il Papa sia responsabile della diffusione dell’AIDS in Africa cerca di eludere, in realtà, le proprie responsabilità ricorrendo a un capro espiatorio, sostiene mons. Tony Anatrella.

In questa intervista, il noto pscichiatra francese ricorda che secondo la Chiesa “non esiste un rimedio definitivo contro l’AIDS se non quello di un comportamento degno dell’uomo, ovvero un comportamento rispettoso, di fedeltà e di dominio di sé, che è precondizione dell’amore”.

La prima parte dell’intervista è stata pubblicata il 4 maggio.

Cosa fa la Chiesa per contrastare l’AIDS e per prendersi cura dei malati?

Mons. Anatrella: Nelle sue riflessioni sulla lotta all’AIDS, Benedetto XVI ha voluto innanzitutto sottolineare l’impegno della Chiesa nell’accoglienza, nelle cure mediche e nell’accompagnamento sociale e spirituale delle persone toccate dal virus dell’HIV. Tra le istituzioni che nel mondo si prendono cura delle persone affette da questa malattia, la Chiesa è la prima struttura privata al mondo. Prima di lei ci sono solo gli Stati: il 44% sono istituzioni statali, il 26,7% istituzioni cattoliche, il 18,3% ONG e l’11% organizzazioni di altre religioni (cfr. Pontificio Consiglio della salute).

La Chiesa è anche impegnata sul fronte della prevenzione della trasmissione del virus dell’HIV attraverso le sue reti scolastiche, i movimenti giovanili e le associazioni familiari.

La Santa Sede ha creato, nel 2004, sotto l’impulso del Papa Giovanni Paolo II, la Fondazione del Buon Samaritano per finanziare progetti di cura e di educazione, diretti alle persone affette e alla prevenzione. Tutto questo dimostra quanto la Chiesa sia attiva in questo campo e come conosca le problematiche di questa pandemia. La sua competenza in materia la porta a sostenere la necessità di un’educazione al senso di responsabilità. Una riflessione umana accessibile a tutte le coscienze, indipendentemente dal punto di vista confessionale. In questo contesto si inserisce l’affermazione di Benedetto XVI: “non si può superarlo [il problema dell’AIDS] con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema”. La soluzione, a suo avviso, passa attraverso “un rinnovo spirituale e umano” e “una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti”.

Come valuta le reazioni che hanno seguito le parole del Papa?

Mons. Anatrella: Le parole del Papa hanno sorpreso non pochi commentatori che sostengono una visione sanitaria della sessualità umana.

L’interrogativo che si presenta alla coscienza umana, di fronte alla costante diffusione del virus dell’HIV, riguarda il senso che vogliamo dare alla sessualità, il modello che vogliamo costruire con misure di prevenzione incentrate unicamente sul preservativo, l’educazione che vogliamo dare alle giovani generazioni sul senso del rapporto umano. Ma, anziché fissarci su uno strumento tecnico, che suscita numerosi dubbi, non è più utile riflettere sui comportamenti sessuali che contribuiscono alla diffusione di questo virus?

Sentendo le reazioni provenienti dal mondo mediatico-politico, non si può non scorgere una frattura culturale importante: non si riesce a pensare alla sessualità se non dal punto di vista sanitario. Lasciare intendere che il Papa sia responsabile della pandemia in Africa è quantomeno semplicistico e ridicolo. Da un lato si afferma che la gente non tiene conto dei principi morali della Chiesa in materia sessuale e dall’altro si sostiene che il suo discorso facilita la trasmissione del virus. Si stanno così invertendo i ruoli ed eludendo le responsabilità attraverso un capro espiatorio. Esiste un tipo di prevenzione che, anziché promuovere pratiche contro le quali vuole lottare, produce l’effetto contrario, come quando tempo fa si voleva “curare la droga con la droga”. Poi ci siamo resi conto che questa forma di prevenzione ci ha fatto perdere tempo: quasi quarant’anni!

V’è una sorta di incapacità a comprendere semplicemente ciò che il Papa dice: “Riflettiamo sui comportamenti sessuali che trasmettono il virus dell’HIV e cerchiamo misure che educhino al senso di responsabilità”. Questo non vuol dire che il discorso sanitario e i “mezzi profilattici” siano da escludersi, ma che in una prospettiva educativa non ci possiamo limitare solo ad essi.

Questo ben dimostra a che livello siamo arrivati. Dove è finito il buon senso? È sorprendente che si rimproveri il Papa di averci fatto partecipi delle sue riflessioni rispondendo alla domanda di un giornalista. L’incapacità di riflettere sui comportamenti e sui modelli sessuali contemporanei, di valutare le pulsioni parziali, le pratiche non integrate e gli orientamenti sessuali, finisce per ridurre tutto a cliché.

Così abbiamo sentito, con tono di affermazione perentoria, come sanno fare gli adolescenti: “ciò che mi interessa è l’uomini e non i dogmi”. In questo modo non siamo forse tornati ad un livello zero della cultura? I responsabili della politica riducono il campo della riflessione ad un soliloquio perché il Papa non parla qui di dogmi, ma dà uno sguardo realistico, da adulto, rispetto ad una visione quasi immatura e infantile della sessualità umana. Quanta cecità, quanto oscurantismo e visione ideologica sul preservativo, per non voler vedere quali siano le pratiche che danno origine alla trasmissione del virus.

La malattia provocata dal virus è tragica ed a noi spetta fare tutto il possibile per evitarla e per trattare degnamente i malati, soprattutto in africa, attraverso la gratuità dei servizi e delle cure, come suggerisce il Papa. Ma al tempo stesso esiste una sorta di arroccamento verso un modello di sessualità, ormai da quarant’anni, che suscita seri problemi.

Il rifiuto della riflessione mostra la volontà di eludere la preoccupazione senza affrontare i comportamenti che ne sono la causa. Si dimentica anche che, prima ancora che di AIDS, si muore di altre malattie, ma solo di questo si parla. Come se fosse un modo per mantenere modelli comportamentali, facendo leva sulla compassione, per non doverli mettere in questione. La cultura insegna che la responsabilità è anche un modo per dare significato alla sessualità e all’espressione sessuale, che rappresenta una forma di relazione umana tra un uomo e una donna e non solo uno sfogo di angosce primarie e di pulsioni parziali, come per volersi liberare di un sentimento di castrazione, quando non si fa altro che rafforzarlo.

La pandemia dell’AIDS ci fa tornare ancora una volta sulla questione dei comportamenti sessuali. Ci chiede di cambiare comportamento anziché cambiare le tecniche pratiche. Dobbiamo solo limitarci ad una visione della sessualità incentrata sugli istinti e sulla tecnica, che favorisce la deumanizzazione, oppure cercare invece le condizioni che ne illuminino l’esercizio nella prospettiva di un incontro che arricchisce la relazione tra un uomo e una donna? Nell’atto sessuale, l’uomo e la donna si accolgono e si integrano. Grazie all’amore sessuale si uniscono nel godimento per essere uniti e darsi vita.

Se l’atto sessuale non comprende la relazione e risponde semplicemente ad un’eccitazione, rimane un mero atto igienico e, in queste condizioni, il preservativo appare come una protezione sanitaria ma anche come una protezione relazionale. Invece, se l’espressione sessuale è vissuta come un impegno tra un uomo e una donna, allora sono necessarie l’astinenza e la fedeltà. Ma da qualche anno abbiamo iniziato a fabbricare un modello sessuale alquanto surrealista che produce il sesso-preservativo. È sulla base di questo oggetto sanitario che bisogna definire la sanità e umanizzarla?

D’altra parte, nelle campagne di prevenzione, a Parigi, non si vede altro che slogan del tipo: “Parigi ama”… seguito dall
’immagine di un preservativo che rappresenta un’alba. Sarebbe più sano imparare a scoprire ciò che è l’amore tra un uomo e una donna, invece di confondere il senso dell’amore indicando il preservativo. Un messaggio che genera confusione e, ancora una volta, inverte il senso delle cose.

La Chiesa parla di amore?

Mons. Anatrella: Sì, ma non in modo emotivo, in cui in nome dell’amore si può dire tutto e il contrario di tutto. Bisogna conoscere cosa è l’amore e in quali condizioni è possibile viverlo. L’amore è inscindibile dalla verità. Le relazione affettive e le espressioni sessuali non sono sinonimi di amore.

Il discorso di Benedetto XVI sulla sessualità umana si inscrive nella continuità del senso dell’amore rivelato da Cristo. È in coerenza con gli orientamenti del Vangelo, sviluppati nella tradizione della Chiesa, sul senso dell’amore, che d’altra parte hanno influito sulla nostra società nell’arco della storia.

L’amore di Dio spesso è mal inteso. È inteso come per ricevere gratificazioni affettive in ogni circostanza. Questa visione semplicistica, talvolta infantile, non corrisponde al messaggio cristiano. Dio è Amore nel senso che dà un amore che rende possibile la vita. Amare con l’amore di Dio è cercare di far vivere l’altro e gli altri.

L’uomo è chiamato ad amare Dio. Questa concezione dell’uomo è, nella nostra civiltà, all’origine del senso della persona, dotata di un proprio valore, una sua interiorità, una sua coscienza, autonomia, libertà e responsabilità. Per questo il Vangelo di Cristo si rivolge alla sua coscienza perché cerchi la verità e valuti il senso e la conseguenza delle sue azioni verso se stesso, verso gli altri e la società. La persona si avvia in questa riflessione morale confrontandosi con i valori oggettivi che non dipendono in principio dalla sua soggettività o dai suoi desideri momentanei, bensì dai riferimenti trascendenti dell’amore.

La Chiesa non cessa di ricordare la dignità della persona umana e il significato dell’amore. Afferma che non esiste un rimedio definitivo contro l’AIDS se non quello di un comportamento degno dell’uomo, ovvero un comportamento rispettoso, di fedeltà e di dominio di sé, che è precondizione dell’amore. Questa prospettiva non esclude un discorso sanitario e il ricorso, in certe situazioni, al preservativo per non mettere a rischio la vita. Il discorso sanitario (e il preservativo) può essere necessario ma è molto restrittivo se si limita ai mezzi puramente tecnici.

Nel linguaggio morale il preservativo rimane come una questione di casistica, come ricordava già nel 1989 il cardinale Ratzinger che cito nel mio libro “L’amour et l’Eglise” (ed. Champ-Flammarion): “L’errore di fondo è di incentrare il problema dell’AIDS sull’uso del preservativo. Certamente i due si incontrano in un certo momento, ma questo non è il vero problema. Incentrarsi sul preservativo come mezzo di prevenzione significa porre in secondo piano tutte le realtà e tutti gli elementi umani che circondano il malato e che devono rimanere presenti nella nostra riflessione. La questione del preservativo è marginale, direi di casistica. […]

Mi sembra che il problema fondamentale è trovare il giusto linguaggio in questa materia. Personalmente non mi piace l’espressione ‘male minore’. D’altra parte, adesso la questione non è decidere tra una o un’altra posizione, ma cercare insieme il miglior modo per definire e comprendere l’azione possibile. […] È segno che la riflessione non è definitiva […]. Ciò che è chiaro, a mio avviso, è la necessità di una sessualità personalistica che considero essere la migliore e unica vera prevenzione. Bisogna tenere conto non solo del punto di vista teologico ma anche di quello delle scienze”[1].

Esistono due comportamenti per evitare l’AIDS: la fedeltà e l’astinenza, ed un mezzo tecnico: il preservativo. Se non è possibile indirizzare i comportamenti, allora è preferibile ricorrere a mezzi di protezione tecnici per non propagare la morte, anche se la priorità continua ad essere la formazione al senso di responsabilità.

Il cardinale Lustiger ha illustrato bene ciò che è in gioco in questa prospettiva dichiarando ai giornalisti de “L’Express” [2] : “Bisogna aiutare la nuova generazione che desidera scoprire la dignità dell’amore. La fedeltà è possibile. Ogni vero amore deve imparare la castità. I malati di AIDS sono chiamati, come ognuno di noi a vivere la castità non nella frustrazione ma nella libertà. Chi non ci riesce deve, utilizzando altri mezzi, evitare il peggio: evitare la morte”. Il giornalista domanda: “Il male minore è il preservativo?” “Un mezzo per non aggiungere un male ad altro male…”.

Detto in altri termini, non tutto è possibile in nome dell’amore: è necessario anche che le azioni siano coerenti con esso.

“La chiesa è esperta di umanità”, secondo l’espressione di Paolo VI all’ONU ed è anche maestra delle coscienze, facendo appello alla coscienza di ciascuno, alla sua libertà per non lasciarsi alienare, e al senso di una relazione autentica con l’altro. Come è possibile applicare questo al flagello dell’AIDS?

Mons. Anatrella: Per la Chiesa, “la sessualità, orientata, elevata e integrata dall’amore, acquista vera qualità umana”[3]. Anche se la persona non si colloca in questa prospettiva è ugualmente invitata ad impostare la sua esistenza, secondo la propria coscienza, in relazione alle realtà e alle esigenze morali. Detto in altri termini, l’amore è una prospettiva e un ordine razionale, sulla base del quale deve essere valutata la natura, la qualità e la verità della relazione e dell’impegno reciproco.

A fronte di questa esigenza, spetta poi a ciascuno assumere le proprie responsabilità usando la virtù della prudenza, nel calcolare e tenere conto di tutti i rischi della vita. Il preservativo, al di là del suo aspetto sanitario, quando è usato semplicemente per giustificare la molteplicità delle coppie, diventa – rispetto al senso dell’amore umano – segno della non autenticità della relazione e pertanto moralmente illecito. Questo comportamento simula l’amore, non lo sostituisce. In altri termini: non basta evitare incidenti stradali mettendosi la cintura, bisogna anche saper rispettare il codice stradale.

Benedetto XVI svolge la sua funzione e rimane sul suo terreno spirituale e morale quando riafferma i principi umani in materia di sessualità che riguardano tutti noi. L’AIDS dovrebbe cambiare questo?

I rapporti tra gli esseri umani implicano più di ciò che ci può apparire. L’espressione dell’amore sessuale non è una cosa banale. Ad un uomo e a una donna non basta l’intera vita per amarsi. La moltiplicazione delle coppie senza discernimento è una disgrazia totale per la dignità umana.

La sessualità umana non può essere modellata psicologicamente, né esprimersi moralmente, in funzione di una malattia, a meno che non si voglia approfittare di tale situazione per giustificare e costruire modelli sessuali sulla base di tendenze problematiche. La sessualità umana non si definisce in base all’AIDS, ma in base al senso dell’amore, di un amore che è impegno tra un uomo e una donna in una relazione e nella responsabilità. La Chiesa testimonia un amore di vita, un amore profetico.

——[1] G. Mattia, La Croix, 22 novembre 1989.

[2] “L’Express”, 9 dicembre 1988, p. 75, di Guillaume Maurie e Jean-Sebastien Stehli.

[3] Orientamenti educativi sull’amore umano, par. n. 6

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ZENIT Staff

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