Arabia Saudita: quando una donna non è una persona

L’attivista Wajeha al-Huwaider condannata

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Basta! Non si possono più chiudere gli occhi, non si può più nascondere la testa sotto la sabbia e fare finta di non vedere e non sapere. E’ di oggi la notizia della condanna a dieci mesi di carcere e divieto per due anni di lasciare il territorio saudita per una delle più agguerrite e coraggiose attiviste saudite: Wajeeha al-Huwaider. In Italia pochi la conoscono, ma forse qualcuno si ricorderà del suo video su YouTube in occasione della Festa delle donne del 2008. In quell’occasione si era fatta filmare mentre sfidava il divieto che impedisce alle donne saudite di guidare e dichiarava quanto segue: “Oggi è la giornata internazionale delle donne. In questo momento sto guidando perché mi trovo in un’area periferica dell’Arabia Saudita, lo posso fare. Il problema è che non possiamo ancora farlo dove abbiamo bisogno, in città”. Conosco Wajeeha da anni, ne conosco la caparbietà e l’ironia. Quando iniziò a promuovere la battaglia per il diritto alla guida delle saudite, le chiesi stupita se non vi fossero altre priorità per le donne del suo paese. Scoppiò in una fragorosa risata e mi disse: “Lasciaci arrivare alla guida dell’auto e poi guideremo il paese!” Era il 2007 e Wajeeha aveva appena fondato, con l’attivista Fawziyya al-Uyyuni, la Lega per promuovere il diritto della donna al volante e aveva persino inviato una petizione al re raccogliendo migliaia di firme. A Wajeeha e Fawziyya, si è unita ben presto Manal al-Sharif, un’altra paladina dei diritti della donna nel regno dei Sa’ud. E’ stata Manal al-Sharif a lanciare su Twitter alla fine del 2012 l’hashtag #analama, in occasione della tragica morte della piccola Lama, uccisa dalle violenze infertegli dal padre, il predicatore islamico Fayhan al-Ghamdi.

La condanna della al-Huwaider è un’ennesima conferma che, nonostante il diritto a votare alle amministrative del 2015, la nomina di trenta donne in seno al “parlamento” saudita, la strada sia ancora in salita. Tutto è iniziato nel giugno 2011, quando il Dipartimento della Sicurezza Nazionale saudita la accusa, unitamente a Fawziyya al-Uyyuni e Umm Sameer di “tentata evasione” dal Regno ovvero di avere tentato di aiutare Umm Sameer, cittadina canadese, suo marito Saeed al-Shahrani e i loro tre figli, ad abbandonare un paese che non vuole lasciarli espatriare insieme. Il governo canadese in passato era riuscito solo a ottenere il visto per la donna che si era rivolta al governo saudita con questo messaggio: “Non sono né un mostro né un’oppositrice. Sono una giovane canadese che chiede giustizia, libertà e onestà nei confronti della sua piccola famiglia ovvero suo marito, i suoi tre figli e ovviamente se stessa. Tutti noi meritiamo un trattamento equo, libertà e giustizia per tutti le sofferenze cui siamo stati sottoposti dal marzo 2005”.

Non solo gli appelli di Umm Sameer sono caduti nel vuoto, ma anche chi ha cercato di aiutarla, Wajeeha e Fawziyya, ora viene punito.

E’ evidente, comunque, che la condanna nei confronti della al-Huwaider vada ben aldilà del singolo fatto, della singola accusa. Si tratta di un personaggio scomodo che ha sempre denunciato ogni sorta di discriminazione e di violazione dei diritti umani fondamentali nel proprio paese. Nel 2010 ha persino indirizzato una lettera al presidente americano Barack Obama, in occasione di un incontro di quest’ultimo con il sovrano saudita, in cui scriveva: “Le donne saudite sono state private del diritto di essere trattate come cittadini a pieno titolo. Il sistema che vuole che le donne abbiano un guardiano impedisce alle donne adulte di avere una vita normale. Impedisce a una donna di ricevere le cure mediche, di viaggiare senza ottenere il permesso del suo “guardiano”, guardiano che potrebbe essere anche il suo figlio di sedici anni. Le saudite non hanno alcun diritto di prendere alcuna decisione che riguarda le proprie questioni personali perché solo un uomo lo può fare. […] Quando incontrerà re Abdullah ibn ‘Abd al-‘Aziz , per cortesia aiuti Sua Maestà a comprendere l’effetto che il sistema che impone alle donne un guardiano può avere sulle saudite. I bambine hanno bisogno di chi li tuteli; le donne adulte no.”

Queste parole possono ben spiegare perché l’attivista saudita sia da anni considerata un cittadino da mettere a tacere perché ogni essere pensante, e quindi libero nel vero senso della parola, rappresenta un pericolo, in modo particolare se donna. Nel 2007 la giornalista saudita Badriyya al-Bishr ha ben spiegato cosa significhi essere donna nel paese delle due Sante moschee in un suo articolo dal titolo Immagina di essere una donna che si concludeva con la seguente denuncia: “Immagina di essere una donna che scrive su un giornale e ogni volta che scrivi delle tue preoccupazioni sulla condizione delle donne, la loro povertà, la loro disoccupazione, il loro status legale, commentano: ‘Non fateci caso, sono solo chiacchiere di donna!’”

Ebbene, noi sappiamo bene, e anche il governo saudita ne è perfettamente consapevole, che non si tratta di chiacchiere, sappiamo che Wajeeha al-Huwaider e Fawziyya al-Uyyuni sono menti libere, sono esempi che potrebbero fare scatenare la vera primavera saudita. Sappiamo che le ostacoleranno in tutti i modi, come hanno sempre fatto, ma ormai intorno a loro si è creata una rete internazionale a loro sostegno. Sappiamo che se i governi occidentali non denunceranno quanto sta accadendo in Arabia Saudita per opportunismo politico, le organizzazioni non governative e la società civile non resteranno a guardare. E noi ci impegneremo a diffondere nel mondo islamico il pensiero chi, come il teologo egiziano Gamal al-Banna, sostiene che “la donna è latrice di femminilità, ma in primo luogo è un essere umano”. Wajeeha, Fawziyya, Manal, Badriyya non sono e non saranno mai sole perché, come ha scritto l’intellettuale yemenita residente in Svizzera Elham Manea, “siamo tutte Wajeeha” e “non vogliamo più tacere”.

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Valentina Colombo

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