Arabia Saudita: il dramma della piccola Lama

Padre omicida di sua figlia scarcerato dopo aver pagato il “riscatto del sangue”

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Morire a cinque anni è inaccettabile. Morire per le percosse inferte dal proprio padre è assurdo. Ma sapere che il padre omicida è stato scarcerato dopo aver versato il cosiddetto “riscatto del sangue”, equivalente a cinquantamila dollari, è veramente insopportabile.

Eppure è accaduto di recente in Arabia Saudita, ma il mondo sembra non sapere o non volere sapere. Il motivo del silenzio assordante risiede con molta probabilità nel fatto che l’Arabia Saudita è un paese intoccabile, è un paese dove i diritti umani fondamentali vengono calpestati ogni giorno nell’omertà generale.

Il 25 dicembre 2011 Lama, una bimba saudita di soli cinque anni, viene ricoverata in ospedale in condizioni disperate a seguito delle violenze, di ogni genere, infertegli dal proprio genitore. Il tragico evento non può essere insabbiato perché il padre è Fayhan al-Ghamdi, un celebre predicatore islamico.

Dopo mesi di agonia il 22 ottobre scorso Lama muore, ma purtroppo, a differenza del caso Wadima negli Emirati Arabi Uniti, giustizia non è stata fatta.  Non solo, ma la stampa locale riporta addirittura le “attenuanti” addotte dal padre che avrebbe avuto sospetti circa la perdita della verginità da parte della figlia. E’ evidente che una bimba di cinque anni qualora abbia perso la verginità, può solo essere stata violentata. Ci si potrebbe a questo punto chiedere: da chi? Ma ormai tutto questo non importa più, importa invece la giustificazione inconcepibile dell’omicidio di una innocente.

Questo è potuto accadere perché in Arabia Saudita, dove vige la versione più rigorosa e conservatrice della sharia, la pena di morte prevista per l’omicidio può essere tramutata in un’ammenda corrispondente al “riscatto del sangue”, in arabo diyya. D’altronde nel Corano, che nel regno saudita rappresenta la costituzione stessa, si legge: “Voi che credete, in materia di omicidio vi è prescritto il taglione: uomo libero per uomo libero, schiavo per schiavo, donna per donna, e quanto a chi abbia condonato qualcosa dal suo fratello, verso costui si procederà come si conviene, ma egli ripagherà l’offeso con generosità. Così sono alleviate le sanzioni di prima da parte del vostro Signore, per Sua misericordia, ma chi in seguito trasgredirà avrà un castigo doloroso” (II, 178).

Nella culla dell’islam esiste una sorta di tariffario che quantifica l’ammontare della diyya: circa 100.000 dollari per un uomo; la metà per una donna o un cristiano o un ebreo; 25.000 dollari per un’ebrea o una cristiana. Tale somma viene versata ai parenti della vittima che possono accettarla o meno. Nel caso di Lama il padre omicida l’ha praticamente versata a se stesso!

Non condividendo la pena di morte, un simile delitto efferato avrebbe meritato comunque una condanna esemplare, avrebbe meritato un ergastolo. Purtroppo ciò non è avvenuto, ma quel che più preoccupa è che Fayhan al-Ghamdi ritornerà a predicare, in nome dell’islam, dell’odio, dell’intolleranza e della violenza.

In un momento in cui l’Arabia Saudita è ormai pienamente consapevole del rischio elevato che comporta la predicazione radicale che, da un lato, ha formato Bin Laden e, dall’altro, fa del regno saudita uno dei paesi che contravvengono in modo più lampante e aberrante ai diritti umani fondamentali, l’epilogo del caso Lama corrisponde a un suicidio. La mancanza di volontà di tenere a freno i predicatori più radicali e di affrontare l’emergenza minori in Arabia Saudita è dimostrata da altri fatti, più o meno recenti.

Il 3 febbraio scorso lo shaykh saudita ‘Abdullah Daoud ha emesso una fatwa, scatenando un acceso dibattito in seno al paese, in cui si invita i genitori a fare indossare alle proprie bambine il velo integrale onde evitare il pericolo di molestie sessuali sempre in agguato. Come ad affermare, ad esempio, che se la piccola Lama avesse indossato un velo integrale, non sarebbe incorsa nei sospetti del padre e quindi sarebbe ancora viva.

Il 4 febbraio il sito della televisione satellitare Al Arabiya denunciava un ennesimo caso di violenza su minori, quello di un bambino saudita, percosso, ustionato dai propri genitori.  Nell’articolo si parlava di circa 25-30 casi simili al mese.

Se a queste notizie si aggiunge la denuncia, pubblicata l’8 novembre scorso, sul quotidiano Gulf News riguardo all’esistenza in Arabia Saudita di circa cinquemila spose bambine, ovvero bambine al di sotto dei quattordici anni, credo si possa a ragione parlare di emergenza minori e che si debba iniziare a denunciare.

Ben venga la nomina, il mese scorso, da parte di re Abdullah di trenta donne in seno alla Shura, il parlamento saudita, poiché si tratta senza dubbio di un segnale positivo in un paese in cui le donne non possono votare, non possono viaggiare se non con il proprio “guardiano”, non possono guidare. Tuttavia è lecito domandarsi il motivo per cui tra le trenta neodeputate non vi sia nessuna attivista nel vero senso della parola.

Probabilmente personaggi come Manal al-Sharif e Wajeha al-Huwaider, due coraggiose paladine dei diritti fondamentali della donna in Arabia Saudita, sono scomodi perché non hanno paura di denunciare il funambolismo di un governo che vorrebbe guardare avanti, ma che continua a negare i diritti umani fondamentali per connivenza con i predicatori più conservatori e retrogradi. Non è un caso che proprio Manal al-Sharif abbia creato l’hashtag su Twitter #analama ovvero “io sono Lama” in segno di protesta e denuncia della liberazione del padre omicida.

Manal al-Sharif dimostra ancora una volta come solo una donna, solo le donne, adulte o bambine che siano, potranno avviare la vera “primavera” del mondo islamico. Le donne, essendo le principali vittime dell’interpretazione a-storica, a-temporale, letterale dei testi fondanti dell’islam, sono le uniche persone a trovare la forza, il coraggio e la motivazione dentro di sé.

Spetta ora all’opinione pubblica mondiale, alle istituzioni politiche internazionali ad aprire gli occhi e a non dialogare più con quei paesi che non rispettano i pilastri di tutte le società da sempre: i bambini e le loro madri.

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Valentina Colombo

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