Aprire il cuore per accogliere il Motu proprio “Summorum Pontificum” (Parte II)

Intervista al liturgista John Zuhlsdorf

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ROMA, mercoledì, 11 luglio 2007 (ZENIT.org).- Secondo padre John Zuhlsdorf, autore di una rubrica sulla tradizione liturgica per il settimanale cattolico “The Wanderer”, con la liberalizzazione della Messa in latino si avrà “una fecondità incrociata”.

Il sacerdote sostiene infatti che la celebrazione della Liturgia Eucaristica nella forma “tridentina” e in quella successiva alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II porterà tutti a gustare in modo rinnovato e arricchito le profondità dell’unico Rito Romano.

La prima parte dell’intervista è stata pubblicata il 10 luglio.

Perché è necessaria la liberalizzazione del Messale Romano del 1962 dopo che, più di vent’anni fa, si è concessa ai Vescovi di tutto il mondo la possibilità di far celebrare questo rito?

Padre Zuhlsdorf: All’inizio c’è stato nel 1986 un permesso molto ristretto di Giovanni Paolo II nell’uso del “Missale Romanum” del 1962. Dopo l’illegittima consacrazione di Vescovi da parte dell’Arcivescovo Lefebvre, nel giugno 1988, Papa Giovanni Paolo II ha promulgato il suo “Motu proprio” “Ecclesia Dei Adflicta”, che effettivamente ha allentato il permesso restrittivo del 1986, ma in modo vago.

In quel documento, Giovanni Paolo II ha chiesto, con la sua autorità apostolica, ai Vescovi e ai sacerdoti di essere generosi e di mostrare rispetto nei confronti di coloro che desideravano antiche espressioni della liturgia. Alcuni lo hanno fatto. Molti no.

Nel frattempo, la frattura tra il gruppo del defunto Arcivescovo Lefebvre, la Società di San Pio X, in alcuni aspetti è cresciuta di più, in altri meno. La disputa sull’uso del Messale di Paolo VI, o uso “ordinario”, non si è placata, nonostante i numerosi documenti disciplinari emessi dalla Santa Sede E’ come se non sapessimo da dove viene la nostra liturgia e come deve essere.

Molto prima della sue elezione alla sede petrina, [il Cardinale Ratzinger] ha scritto e parlato della continuità che i nostri riti e le nostre pratiche liturgiche devono avere con la nostra tradizione. La liturgia si sviluppa organicamente per un lungo periodo dal modo di vivere la fede ed entrando in contatto con diverse culture.

Il Messale di Paolo VI è stato, per certi aspetti, assemblato in dispacci dagli esperti, alcuni dei quali, bisogna dirlo, avevano le loro agende ideologiche. Insieme a uno sfrenato atteggiamento del “fuori il vecchio”, esisteva una percezione di rottura con la tradizione liturgica della Chiesa.

Questa rottura della vita liturgica della Chiesa non ha dato solo frutti felici. Tra le altre ferite, ha dato l’impressione che la liturgia potesse cambiare quasi dal giorno alla notte e far scomparire le antiche forme, che tutto potesse cambiare, anche la dottrina.

Abbandoniamo la teoria. Restaurare il modo antico di celebrare la Messa è semplicemente essere prudenti. Come ha scritto Benedetto XVI, era poco ragionevole proibire in modo così repentino una forma di Messa che ha conformato l’identità cattolica per secoli. Questo ha pregiudicato la nostra identità cattolica. Dobbiamo curare le ferite.

Molti commentatori vedono il “Motu proprio” come un tentativo di salvare lo scisma tra la Santa Sede e i settori tradizionalisti. Cosa ne pensa?

Padre Zuhlsdorf: Deve aiutare a ricucire lo strappo tra la Società di San Pio X e la Santa Sede.

Secondo me, ampliare questa facoltà a tutti i sacerdoti aiuterà, ma non risolverà niente. Ci sono temi più profondi che non si possono risolvere facilmente.

Il tema relativo a quale libro può usare un sacerdote per dire Messa, o sollevare la scomunica imposta ai Vescovi della Società di San Pio X, può essere risolto di colpo dal Papa.

Restano però da risolvere temi teologici come la dottrina del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa e come la Chiesa deve relazionarsi al mondo. Per questo non penso che questo “Motu proprio” abbia a che vedere principalmente con la separazione della Società di San Pio X.

Persone di entrambe le parti per molto tempo si sono guardate con quella che chiamo la “visione imbuto”. Quando ci guardiamo con il cuore di Cristo, attraverso “l’invisibile ferita d’amore”, come diceva Richard de St. Victor, si risolvono molti problemi. E’ arrivato il momento di curare.

Altri analisti argomentano che il proposito del “Motu proprio” è aiutare a promuovere il genuino rinnovamento liturgico del Messale di Paolo VI, mediante una “riforma della riforma”. Come può accadere?

Padre Zuhlsdorf: Come ho detto prima, la liturgia si sviluppa organicamente nel corso di un periodo di vivere la fede ed entrare in contatto con varie culture. Storicamente, diversi riti della Messa si sono influenzati a vicenda.

Ciò che accadrà con la liberalizzazione della forma antica della Messa sarà una fecondità incrociata, potremmo dire, poiché l’uso di una Messa influisce sull’altro.

Dall’originaria liberalizzazione di Giovanni Paolo II, molti giovani sacerdoti si sono interessati alle antiche forme della Messa. Non conoscevano la Messa “tridentina” ma non portavano neanche il fardello degli anni ‘60 e ‘70. Non erano stretti in quel falso “Spirito del Vaticano II”.

Lo stesso è accaduto con alcuni sacerdoti più anziani che hanno riacquisito la forma “straordinaria” della Messa dopo anni senza contatti. Quando hanno iniziato a studiare la forma antica, hanno aggiustato il modo in cui celebravano il “Novus Ordo”. Hanno iniziato a radicare nuovamente il loro stile di celebrare la Messa nella profonda tradizione.

Questo sviluppa un senso diverso dell’“ars celebrandi”, il modo liturgico e l’atteggiamento propri di cui parla Papa Benedetto nella sua esortazione postsinodale “Sacramentum Caritatis”.

In un senso ironico, ho sentito qualche battuta sul fatto che il “Novus Ordo” migliora quanto più celebri come se si trattasse dell’antica forma della Messa.

Dall’altro lato, la gente che usa la forma antica della Messa ha imparato dagli ultimi decenni del “Novus Ordo”. Probabilmente recita e partecipa alla Messa Tridentina meglio ora che prima di tutti i cambiamenti.

L’assenza del messale più antico per tanto tempo ha aumentato il nostro apprezzamento delle sue ricchezze. Le esperienze buone e cattive, anche gli abusi, sono stati di insegnamento.

Quando vedo i sacerdoti celebrare la forma antica, posso dire che sono acutamente consapevoli che di fatto c’è gente nei banchi. C’è un forte collegamento tra il sacerdote e la congregazione. Il punto cruciale è che gli usi diversi influiranno su tutta la vita liturgica della Chiesa. Tutti ci arricchiremo. Non ci sono perdenti qui. Siamo tutti vincitori.

Cos’ha a che vedere il “Motu proprio” con quello che il Santo Padre chiama “l’ermeneutica della continuità”?

Padre Zuhlsdorf: Facciamo un paio di distinzioni. Cerco di esaminare importanti documenti considerando ciò che dicono alla Chiesa, “ad intra”, e al mondo, “ad extra”.

Dal punto di vista “ad intra”, Benedetto XVI vuole sanare le rotture nella continuità in vari ambiti della vita della Chiesa. La liberalizzazione, come ho detto, tornerà a radicare le celebrazioni della Santa Messa nella nostra profonda tradizione liturgica.

Nel suo discorso del Natale 2005 alla Curia, il Santo Padre ha parlato di un’“ermeneutica della discontinuità e della rottura” dopo il Concilio Vaticano II. Un’“ermeneutica” è un principio di interpretazione, come una lente mediante la quale esaminiamo una questione. Per molti sembrava che non ci fosse niente di buono o valido da preservare prima del Vaticano II. Tutto ciò che era antico era cattivo.

I documenti del Concilio non chiamano a una rottura. Un falso “Spirito del Va
ticano II” di discontinuità e rottura ha accattivato molta gente influente nella Chiesa. Questa “ermeneutica della discontinuità” è stata applicata in parrocchie, seminari, università e nei media cattolici. Ha creato fratture in quasi ogni aspetto della vita della Chiesa dopo il Concilio.

Questo “Motu proprio” è un passo concreto della promozione da parte di Benedetto XVI di un nuovo modo di vedere come il passato, il presente e il futuro siano collegati. Propone un’“ermeneutica di riforma”, come l’ha definita nello stesso discorso del Natale 2005.

Sentirà qualcuno usare il cliché che si tratta di un movimento per “far andare indietro l’orologio”. Leggono male la motivazione. E’ un modo di applicare il Concilio in modo più autentico. La liberalizzazione dell’antica forma della Messa deve essere contemplata come una parte della visione della riforma da parte di Benedetto XVI. Sta ricostruendo continuità con la tradizione della Chiesa. “Ad intra”, il documento tratta completamente della cura.

Ricostruire continuità ci porta a quello che il “Motu proprio” chiama “ad extra”, al mondo più ampio.

Tutti conoscono gli sforzi per mettere a tacere e minimizzare la Chiesa cattolica negli scenari del dibattito pubblico, politici e accademici. I cattolici sono emarginati se aprono bocca. Di modo che la fede viene messa da parte come questione puramente “privata”, da non esprimere in pubblico.

Benedetto XVI è fermo sul fatto che la Chiesa ha diritto al suo linguaggio, ai suoi simboli e alla sua identità. Abbiamo il diritto di esprimerci pubblicamente con la nostra identità cattolica intatta. Dobbiamo dare un apporto come cattolici.

Allo stesso tempo, Benedetto XVI difende il concetto della laicità propriamente detta, ma insiste sull’offrire le preoccupazioni cattoliche al pubblico. In Italia questo ha iniziato a provocare malessere. I Vescovi italiani stanno riscoprendo la loro voce pubblicamente e i loro detrattori sono furiosi.

Perché questa dimensione del punto di vista di Benedetto XVI porti frutto, dobbiamo iniziare a riscoprire e reintegrare un’identità autenticamente cattolica. Il “Motu proprio” per liberalizzare la forma della Messa che ha formato l’identità cattolica per secoli è un movimento importante nel progetto del Papa di recuperare la continuità con la nostra tradizione, per iniziare la cura, e quindi dare nuovo vigore alla Chiesa in un mondo sempre più secolarizzato e relativista.

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ZENIT Staff

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