Andate e annunciate: conoscenza e amore o amore e conoscenza

Lettera pastorale di Mons. Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace, per l’Anno della Fede

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di Eugenio Fizzotti 

ROMA, venerdì, 2 novembre 2012 (ZENIT.org) – Partendo dall’espressione paolina: «Dio mi è testimone del profondo affetto che ho per tutti voi, nell’amore di Gesù Cristo. E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento» (Fil 1,8-9) e ringraziando continuamente il Signore per il dono che gli ha fatto di servire la Chiesa particolare che è in Catanzaro-Squillace, la quale gli ha palesato i tesori della sua ricca spiritualità, del suo profondo senso pastorale, unito a una carica di umanità ammirevole, Mons. Vincenzo Bertolone ha presentano a tutta la sua Arcidiocesi un’ampia e molto documentata lettera pastorale per l’Anno della fede 2012-2013 sulla tematica: “Andate a annunciate. Conoscenza e amore o amore e conoscenza”.

È fortemente emotivo il punto di partenza della lettera, perché manifesta il profondo affetto che Mons. Bertolone nutre per ogni membro dell’Arcidiocesi, che apprezza nell’impegno sistematico di diventare sempre più cristiani, mettendo in pratica le cose ricevute e imparate da Cristo. E a tutti i fedeli, ai pastori e ai figli della sua Chiesa augura davvero che «in ognuno la carità cresca sempre più in conoscenza e in discernimento, in maniera da scoprire tutti la vera e profonda identità, che è identità di “inviati” in vista dell’annuncio della Buona Notizia del Signore a tutti gli esseri umani, in ogni luogo e in ogni tempo.

Si tratta, in pratica, di una missione itinerante di pace, caratterizzata da azioni gratuite e generose di prossimità e di accoglienza, soprattutto nella direzione di chi ha bisogno di salute e di salvezza, come mostrano la parabola del buon Samaritano che, per i Padri, allude prima di tutto a Cristo, e l’atteggiamento contemplativo di Maria e attivo di Marta».

Con realismo particolare l’Arcivescovo pone in evidenza che «saranno invitati nel regno, come benedetti del Padre, quelli posti alla destra del re-pastore, perché nella loro vita hanno accolto e protetto i suoi fratelli più piccoli, più bisognosi, più indifesi, gli affranti, i migranti e i forestieri, i senza tetto e gli emarginati: in una sola parola hanno dimostrato solidarietà nei confronti dei più deboli, dei bisognosi, in senso materiale e morale».

E per confermare gli atteggiamenti che si assumono con occhi di fede di fronte alla crisi dei valori e alla penuria di senso del dovere, che facilmente fanno ricorrere a soluzioni illegali o ai limiti dell’illegalità, sottolinea l’esigenza che le nuove generazioni e le amministrazioni a ogni livello devono essere educate a individuare e favorire il bene comune, che è ben diverso da quello particolare dei singoli rappresentanti, della politica, della mafia, della ‘ndrangheta.

Come testimonianza ad «ammainare la bandiera della speranza e della fede, che significa dire no al male e sì a Dio, credere al suo amore e al suo disegno salvifico nei nostri confronti, anche quando tutto sembra negativo e perfino quando vengono sbattute le porte in faccia agli agnelli mandati dal Signore come in mezzo ai lupi» nella lettera c’è un opportuno e significativo riferimento a Don Giuseppe Puglisi che, ucciso dalla mafia di Brancaccio (PA) nel settembre 1993, ora proclamato dalla Chiesa beato martire, amava spesso, anche nelle omelie, esortare i suoi parrocchiani, specialmente i giovani, con queste parole: «Le nostre iniziative e quelle dei volontari devono essere un segno. Non è qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci. È soltanto un segno per fornire altri modelli, soprattutto ai nostri giovani. Lo facciamo per poter dire: dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa. E se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto».

Per Mons. Bertolone il beato Puglisi aveva «il preciso obiettivo di scuotere le coscienze, di ribellarsi a quelle che molti si rassegnano ad accettare, a subire come una “legge” divina: Dio fa i ricchi e fa i poveri; ci sono i potenti, che comandano, e tutti gli altri che subiscono. Da buon meridionale, egli sapeva che questo fatalismo, oltre a nuocere, ci allontana dal sano impegno che Dio vuole da noi. Si può pensare in tanti modi l’amore di Dio per noi e ci possono essere diversi modi per andare contro il suo amore: l’indifferenza, il disimpegno, l’abulia, la pigrizia – altrimenti detta “accidia” – non sono degne dell’uomo, chiamato a usare bene la possibilità di scegliere. Ciò vale in ambito individuale e sociale: chi “delega” tutto poi non può lamentarsi che le cose vanno male, che le persone chiamate a incarichi pubblici non funzionino bene. Ciascuno faccia il suo, diceva don Puglisi, di modo che a ciascuno vada quanto dovuto: unicuique suum, a ciascuno il suo. Perciò, niente “splendido isolamento”, ma spirito di collaborazione, voglia di fare, impegno, solidarietà, sinergie».

Facendo riferimento alla porta della fede, Mons. Bertolone sottolinea che tale immagine «rimandi già nell’Antico Testamento: basta pensare, oltre al Salmo 118, alle porte di Gerusalemme, che ogni figlio d’Israele si augura di poter varcare, per godere della pace messianica; a quelle del Tempio, alle quali anela il pio israelita nella sua salita verso la Città santa; all’entrata del Regno, dove potrà passare chiunque sarà trovato fedele, o a quella degli inferi, che segnano i confini tra vivi e morti. Nel nuovo Testamento, ovviamente, l’icona si arricchisce di ulteriori significati, soprattutto grazie a san Paolo, che ha sperimentato personalmente l’irruzione diretta di Dio nella porta della sua anima, in vista dell’opera d’evangelizzazione».

E poiché Gesù Cristo è la porta attraverso la quale passare risulta fondamentale approfondire il rapporto tra predicazione, a cui l’identità di inviati e di annunciatori rimanda, e fede, per la quale e nella quale si confessa che Gesù è la Via che introduce «in un mondo nuovo, in un nuovo ordine di idee, fino ad assumere una mentalità nuova, che genererà una nuova prassi e cambierà il mondo e la storia. Per dirla ancora con Paolo, Cristo diventa il nostro pensiero: “Noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). Parimenti, chi ascolta e crede in Gesù, che è la via e la porta, entra nella salvezza, cioè inaugura una vita nuova. È sempre Paolo ad affermare: “La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10,17)».

Ed è notevolmente chiaro per Mons. Bertolone che «Cristo Signore, attraverso la Chiesa, sua sposa, trasforma radicalmente tutte le cose di questo mondo (omnia mundi) ma non tutte gli sono ancora definitivamente sottomesse. Venendo alla fine dei tempi a giudicare i vivi e i morti, egli rivelerà la disposizione segreta dei cuori e renderà a ciascun uomo secondo l’accoglienza (o il rifiuto) della grazia e secondo le sue opere. Occorre ben operare in vista del ritorno del Signore, tenendo conto dell’eventualità dell’incredulità».

Ciò vuol dire che la fede vera, se conosciuta e accettata, non può che diventare opera d’amore, per cui la testimonianza della vita cristiana, e le opere buone compiute con spirito soprannaturale hanno la forza di attirare gli uomini alla fede di Dio. Ed è quanto mai necessario che «i credenti, a cominciare da noi oggi, si sentano, come Agostino di Ippona, “semi della fede” per farsi prossimo con quanti chiedono ragione del nostro credere, secondo gli obiettivi verso cui indirizzare l’impegno della Chiesa, indicati dal Papa in Porta fidei».

E dopo aver fatto riferimento a numerosi teologi e Padri della Chiesa, Mons. Bertolone  esprime l’opportunità di «mettere coraggiosamente in atto nell’Arcidiocesi nel corso dell’Anno della fede una breve ricognizio
ne dell’aspetto comunicativo dell’annuncio, essendo il linguaggio, nelle sue varie forme verbali e non verbali, l’elemento fondamentale anche nella trasmissione della fede da credere. Perché se questa è eterna, in quanto proveniente dall’Altissimo, ciò che cambia è il contesto storico e culturale nel quale essa dev’essere comunque conosciuta e diffusa, secondo il mandato del Maestro che ha inviato ogni apostolo ad andare e annunciare. Del resto, questo è il dinamismo dello stesso linguaggio biblico che mette in scritto le verità perenni adattandosi nei vari libri alle potenzialità e alle capacità degli agiografi e dei destinatari».

Ed è originale anche il richiamo al Papa Albino Luciani, Giovanni Paolo I, il quale  «lodava il Maestro contro-corrente per la qualità, lo stile del suo linguaggio, del suo metodo dialogico, della sua missione di educatore, di catecheta… esercitati dalla cattedra della Croce e ha evidenziato le modalità di un parlare (e scrivere, ma anche di proporre gesti, immagini e di utilizzare nuovi strumenti tecnologici) finalmente efficace e fortemente comunicativo: concretezza, essenzialità, riserbo, insomma linguaggio adatto al destinatario, con chiarezza, semplicità e incisività».

Opportuno è anche il richiamo alla nuova evangelizzazione che viene ora proposta dalla Chiesa cattolica che «non è nuova nei contenuti (che sono quelli di sempre), ma nel linguaggio che è quello da apprendere sulla scia del Concilio e della sua “scommessa” pastorale e soprattutto nell’ardore, che proviene da una generosa riscoperta dei fondamenti della fede» attraverso un metodo che, riscoprendo il mondo vasto della cultura, delle scienze, delle arti, della tecnica, del lavoro, dell’impresa, dell’economia, della finanza, e la famiglia come piccola chiesa domestica, si avvale del Catechismo della Chiesa cattolica, dei testi del Concilio Vaticano II e soprattutto del nuovo Catechismo diocesano, che appunto consente di «dare un’ulteriore possibilità ai nostri fedeli di usufruire di uno strumento qualificato e di grande valore per la catechesi, essendo già i Catechismi locali strumenti di pregio per portare la forza del Vangelo nelle varie culture». E risulta quanto mai opportuna, per favorire  la corretta utilizzazione del Catechismo diocesano, la formazione continua dei catechisti, che «dovranno comunicare e spiegare gli argomenti proposti, mirando soprattutto a far sì che, conoscendo si ami e, innamorandosi, si conosca sempre di più».

Mons. Bertolone si avvia a concludere la sua Lettera pastorale invitando a preoccuparsi del rapporto con tutti i fratelli lontani dalla fede, molti dei quali hanno smesso di lasciarsi scalfire dalla Parola del Vangelo preferendo un atteggiamento di silenziosa indifferenza e non riescono più ad accordare il messaggio della fede con le loro esigenze di vita e di libertà.

E ottimo è nell’ultimo paragrafo l’affidamento «alla Vergine Immacolata e nostra Madre dell’anno pastorale così ricco di sollecitazioni, assieme all’Anno della fede, nel quale vogliamo, come e con Lei, ascoltare la Parola di Dio e serbare tutto meditando nel nostro cuore, per essere catechisti e testimoni credibili nella società del terzo millennio».

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ZENIT Staff

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