Allargare la Speranza per allargare la ragione e vivere nella libertà

Monsignor Giampaolo Crepaldi commenta l’Enciclica “Spe salvi”

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ROMA, martedì, 4 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il commento di monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, alla seconda Enciclica di Benedetto XVI, dal titolo “Spe salvi”.

* * *

La seconda Enciclica di Benedetto XVI Spe salvi è incentrata sulla speranza cristiana in cui siamo stati salvati. Non è quindi direttamente un’enciclica sociale. Eppure, siccome la dottrina sociale della Chiesa fa parte integrante del messaggio cristiano, Benedetto XVI, parlando della speranza, mostra come essa rinnovi dall’interno anche le speranze, ossia le piccole o grandi speranze della nostra vita sulla terra, mostra come la speranza cristiana sia una “speranza attiva” (n. 34) e come la salvezza che essa promette non sia individualistica ma comunitaria (n. 14).

Succede così che l’enciclica apra ampi sprazzi di luce anche sul nostro impegno nel mondo tra e per i fratelli, spingendoci a “partecipare attivamente e con tutte le forze all’edificazione della città” (n. 29). Proprio perché la speranza cristiana non è tutta del mondo, ossia non si riduce mai alle semplici speranze, per quanto affascinanti esse siano nel momento, essa è la vera speranza anche per il mondo.

Mi sembra che uno dei principali inviti dell’enciclica sia di “allargare la speranza”. Benedetto XVI, nella sua prima enciclica Deus caritas est ed in molte altre occasioni, aveva già ampiamente parlato della necessità ed urgenza di “allargare la ragione”.

Siccome la ragione non può allargarsi da sola, essa ha bisogno della fede e della sua purificazione. Con la Spes salvi, il papa arricchisce e completa il suo insegnamento su questi punti nodali: l’allargamento della ragione ha bisogno dell’allargamento della speranza. Il progresso dell’umanità, egli dice, deve essere non solo materiale ma anche morale, perché solo nella libertà è possibile vivere una vita umana.

La città dell’uomo, senza la libertà, è un inferno e lascia attorno a sé solo “una distruzione desolante” (n. 21). Perché questo sia possibile si richiede una ragione in grado di “indicare la strada alla volontà” (n. 47). Ora, la ragione non può indicare la strada alla volontà se “non guarda oltre se stessa” (n. 21), ossia se non si fa redimere dalla speranza.

Al contrario, la modernità ha spesso ritenuto di poter realizzare la libertà umana – il Regnum hominis – emancipando l’uomo da ogni condizionamento mediante la scienza e la tecnica oppure mediante una politica capace di condurre ad un esito finale di perfezione.

La speranza è stata così ridotta a quanto la ragione umana era in grado di fare. Accadde così, nota Benedetto XVI, che Marx non abbia ritenuto di scrivere nulla sulla società comunista e Lenin “dovette accorgersi che negli scritti del maestro non si trovava nessuna indicazione sul come procedere” (n. 21).

Il motivo di questa voluta trascuratezza è che quella società si sarebbe realizzata anche senza la volontà umana e che in quella società non si sarebbe stato più alcun bisogno della libertà umana. Nemmeno per l’ideologia del progresso affidato unicamente alla scienza e alla tecnica non sembra esserci bisogno della libertà umana.

Allora, la restrizione della speranza provoca l’atrofia della ragione e questo conduce sempre ad una mancanza di libertà. La richiesta di autocritica che Benedetto XVI rivolge alla modernità su questi punti, comporta anche – e mi sembra uno dei passi più impegnativi e perfino drammatici dell’enciclica – una autocritica del cristianesimo moderno, il quale “di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza” (n. 25).

Di grande interesse sono i molteplici passi dell’Enciclica in cui Benedetto XVI corregge l’idea che la speranza cristiana abbia una valenza solo individuale, o perfino individualistica. Anche questi passi, come quelli ora visti sull’allargamento della speranza, accendono delle luci sull’impegno del cristiano nella società. “Beato il popolo il cui Dio è il Signore” dice il Salmo 144: la vita beata si vive come popolo e il popolo è tale per il suo Signore.

La relazione con Dio avviene tramite la relazione con Cristo, che “è morto per tutti”, per questo non ci può essere un cristianesimo in solitudine. Dalla speranza nascono infatti la “partecipazione alla giustizia” e la “responsabilità per l’altro” (n. 28). Un notevole esempio per capire questa connessione profonda tra speranza e impegno nel mondo è l’immagine del bosco, che Benedetto XVI trae dagli insegnamenti di Bernando di Chiaravalle (n. 34).

I monaci dissodavano il bosco dissodando prima la loro anima e liberare il bosco dagli sterpi e metterlo a coltura – che è simbolo dell’impegno nel lavoro verso la società dei fratelli – va di pari passo con il dissodare il proprio cuore dalla superbia. Non c’è opposizione, allora, tra la speranza di Dio accolta dentro di noi e la fatica di un impegno laborioso verso gli altri nella società, anzi la vera forza di questo ultimo impegno si trova proprio in quella speranza.

Per dare un esempio contemporaneo di vita cristiana improntata alla speranza mai vissuta in solitudine, il papa propone la persona del Cardinale Van Thuân. Ne parla con bellissimi accenni nei paragrafi 32 e 34. La speranza ha fatto sì che il cardinale Van Thuân, nei lungi anni della sua prigionia vissuta in completo isolamento, non fosse in realtà mai solo.

“Durante tredici anni di carcere – scrive Benedetto XVI – in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza, che dopo il suo rilascio, gli consentì di diventare per gli uomini in tutto il mondo un testimone della speranza” (n. 32).

Non si prega contro l’altro e “pregare è un processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini” (n. 33).

L’enciclica illumina l’intero processo dello sviluppo dell’uomo moderno, nella sua volontà ossessiva di costruire un mondo senza Dio. Un mondo senza Dio è però un mondo senza speranza: “Chi non conosce Dio, pur avendo molteplici speranze, in realtà è senza speranza” (n. 27). Essa spiega quale sia il principale problema della nostra civiltà.

La scienza e la tecnica procedono per accumulo, ma la libertà morale in grado di condurle non procede per accumulazione, ogni generazione ed ogni persona deve continuamente farla propria (n. 24). Anche le strutture migliori funzionano solo in virtù di una libera convinzione morale, la quale però “non esiste da sé” (n. 24/d). Ecco perché l’uomo “non può mai essere redento semplicemente dall’esterno” (n. 25), ma ha bisogno della speranza.

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ZENIT Staff

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