Alessio Boni: “Apprezzo i valori antichi, recitando esorcizzo la noia”

In scena in questi giorni con I duellanti di Conrad, l’attore racconta la sua vita e la sua arte. E ai giovani alle prime armi consiglia: “Studiate molto ed evitate le scorciatoie del reality”

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“Sono un po’ guascone e un po’ nobile, ma di certo non un borghese qualunque”. Lo svela a ZENIT, Alessio Boni il mattatore de I duellanti, in scena al teatro Quirino di Roma fino al 6 marzo, sold out già dal primo giorno. Per tutto aprile in tournée nell’Italia centrale, tra Livorno, Cattolica e Ancona. Della genesi della pièce, ispirata al racconto di Joseph Conrad – nato da una cena tra Marcello Prayer, Francesco Niccolini e Aldorasi – e di stoccate finali, ne parliamo con Alessio Boni, dall’animo sensibile di D’Hubert e il sorriso malizioso di Feraut.
Nella vita quotidiana si rispecchia più nel damerino D’Hubert o nel guascone Feraut?
Scelgo l’eleganza di D’Hubert e il temperamento sanguigno di Feraut. Come Shakespeare, che parte dal basso, dallo stomaco, per elevarsi fino alle stelle. Ed è perciò che piace tanto, ancora oggi.
 Un adattamento così complesso, tratto dal racconto omonimo di Joseph Conrad, è davvero nato per caso?  
Sì, esattamente da una cena tra amici. Un anno fa, dopo Il Gesualdo Da Venosa, interpretato dal mio amico Marcello Prayer, ci siamo incontrati: io, il regista della pièce, Roberto Aldorasi, Marcello e il drammaturgo Niccolini, che ha proposto l’idea e ne ha curato poi la stesura. Così è nata la drammaturgia, in un momento di convivialità.
Com’è stato svolgere due importanti ruoli in contemporanea: protagonista e regista?
Non ero solo, mentre recitavo, c’era sempre Roberto Aldorasi, un valido co-regista che controllava dall’alto i dinamismi e la riuscita complessiva. Devo precisare che in questo spettacolo, tutti hanno avuto la possibilità di essere registi nel proprio ambito, sperimentare cambiamenti e aggiunte e stabilirne poi insieme l’effetto finale. Questa libertà creativa è stata possibile grazie alla produttrice di Goldernart, Federica Vincenti, che ha sponsorizzato il progetto con entusiasmo, ma lasciandoci carta bianca.
 Quante ore di allenamento con la sciabola sono state necessarie?
Circa due mesi di prove, ma in verità, mi sono allenato in ogni momento libero. Per rendere il movimento fluido e autentico è necessario provare e riprovare, fino a quando il gesto non va da sé, in automatico.  Le stoccate sul palco sono effettive: “ce la diamo davvero”!
 A proposito, la stoccata decisiva, l’ha già sferrata?       
La stoccata decisiva è ancora da sferrare. Per me “la stoccata finale” è diventare padre e formare una famiglia. Il vero obiettivo di tutta una vita è stato, per me, diventare un uomo, concentrarmi sull’essere piuttosto che sull’avere.  Ricordo un aneddoto di Padre Maria Turoldo, poeta, scrittore e sacerdote, che esprimeva il suo rammarico perché nessuno dei suoi allievi, alla classica domanda: “cosa vuoi fare da grande”, abbia mai risposto “diventare un uomo”.
Si rispecchia maggiormente nei valori cavallereschi o in questi attuali?
Sono un uomo moderno, calato nel proprio tempo, ma ammetto di apprezzare alcuni valori antichi come il rispetto della parola data, l’onestà e l’onorabilità. Apprezzo la società di allora, dove l’uomo era tutto d’un pezzo. Bisogna recuperare il concetto di “noi” a scapito dell’“io”, pensare di più al benessere dell’altro e alla società che lasciamo in eredità ai nostri figli.
 D’Hubert, il suo personaggio, alla fine della guerra, teme la noia, “il deserto esistenziale”. La scommessa contro la “noia” è riuscito a vincerla?
Se c’è una cosa che mi spaventa, questa è la noia. È un’abulia, che può scaturire nella depressione. Per fortuna, riesco a esorcizzarla tramite la recitazione e posso dire di provarla di rado, ma quando capita, è terribile. Mi succede soprattutto in certe occasioni mondane, dove è la finzione a predominare.
 Che importanza ha il teatro nella sua vita di attore?
Per me conta moltissimo e gli dedico molto tempo, in lunghe tournée. Nel teatro, appunto, non c’è spazio per la noia, soprattutto per chi ne è l’artefice, come noi attori. Ci si concentra sull’uomo e sui sentimenti umani, confrontandosi spesso con testi profondi, difficili e anche spirituali, come il mio precedente: Il visitatore di Eric Schmitt. Sul palco, un attore deve essere capace di “elargire sentimenti umani”. Bisogna saper rendere concreti i sogni.
Ti aspettavi un’accoglienza così positiva da parte del pubblico?
Sì. Penso che il pubblico percepisca l’impegno e la professionalità dietro a un certo tipo di spettacolo. E anche la qualità umana degli attori, oltre che di professionisti. Ho scelto di contornarmi di belle anime.
Un consiglio a un giovane attore, che si affaccia ora al mestiere?
A mio avviso, l’unico consiglio sempre valido è studiare. Frequentare l’Accademia di Cinema o Teatro, fare la propria gavetta sul grande schermo o sul palcoscenico. Soltanto, tramite la scuola è possibile formarsi le basi, imparare a scavarsi dentro e a esprimere i sentimenti, quando richiesto. Le scorciatoie dei reality secondo me non funzionano: non insegnano la gravità della professione artistica.
 
 
 
 
 
 

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Rita Ricci

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