"AccoglieRete": un punto di riferimento per i minori sbarcati soli sulle coste italiane

Intervista all’avvocato Carla Trommini, presidente dell’associazione, ospite al Meeting di Rimini, che attualmente assiste oltre 700 migranti minorenni

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“AccoglieRete”. Un nome che è anche un invito, quello che ha scelto un’associazione che opera nel siracusano, nata nel 2013 per rispondere al bisogno di una particolare categoria di migranti: i minori che sbarcano sulle coste italiane da soli. Tecnicamente si definiscono ‘Minori Stranieri Non Accompagnati’; di fatto sono «ragazzi che arrivano da soli, quindi senza delle figure di riferimento», come spiega l’avvocato e presidente dell’associazione Carla Trommino, a margine dell’incontro del Meeting di Rimini “L’immigrazione e il bisogno dell’altro: Italia, Europa e Mondo”. Di seguito l’intervista per ZENIT.

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Come è nata l’idea dell’associazione?

L’idea di quest’associazione è nata vedendo come questi ragazzi fossero abbandonati in una situazione che comportava un peggioramento di quella già gravissima da cui arrivavano. Alla violenza dei propri Paesi d’origine, a cui si sommava la violenza dei Paesi di transito, si stava aggiungendo anche una condizione di abbandono nei luoghi di prima accoglienza. Minori senza scarpe, minori che dormivano per terra, minori che avevano ancora indosso i vestiti dello sbarco dopo tre giorni e non avevano la voce per poter dire questo…

Perchè ad un minore manca questa forza?

Perché nel nostro ordinamento il minore non ha neppure la possibilità di dire che ha bisogno di una protezione dal proprio paese senza un adulto di riferimento che se ne occupi e lo rappresenti negli atti civili. Quindi, prima di tutto avevano bisogno di qualcuno che fosse un punto di riferimento, di un adulto che si prendesse cura di loro, che è la figura tradizionale prevista dal codice civile del tutore. Ci siamo resi conto pertanto che era fondamentale dare un tutore fin da subito al minore, che se ne occupasse in maniera individuale e non ‘uno per tutti’. Altrimenti nel concreto non sarebbe cambiato nulla.  

Come è nata questa associazione?

Ho visto questa situazione dentro uno dei centri dove mi trovavo per assistere un adulto. Allora ho chiamato un gruppo di volontari che già lavoravano nell’ambito dell’immigrazione con appartenenze diverse: dalle suore francescane alla comunità degli africani, fino a tanti altri soggetti che ruotavano attorno alla realtà dell’immigrazione nel territorio. A loro ho chiesto di venire a vedere ciò che stava succedendo. Abbiamo capito che dovevamo fare qualcosa. Io ho proposto l’idea di diventare tutti tutori di questi minori e poi a poco a poco si è sviluppato tutto il resto.

Lei spiegava che al momento ci sono 700 minori assistiti dalla vostra associazione. Quante invece gli adulti coinvolti?

Abbiamo 130 tutori in questo momento. Ogni tutore ha massimo 3-4 ragazzi, non di più. Poi c’è molto ricambio, perché questa è solo una fase di prima accoglienza. Capita che la maggior parte dei ragazzi vadano in seconda accoglienza, e possono andare in varie comunità in tutt’italia e in quel caso il tribunale trasferisce la tutela.

Quali sono i compiti del tutore per il rispetto al minore?

La cura della persona del minore e della rappresentanza in tutti gli atti civili. Non la parte dell’assistenza materiale, non è tenuto a dare vitto e alloggio, a cui provvedono i centri o le comunità. Il tutore lo aiuta nel percorso con tutte le istituzioni che sono in gioco, controlla che le comunità dove sono collocati facciano il loro dovere e fa da tramite tra il giudice tutelare e il minore, avendo come principio l’interesse superiore di quest’ultimo. Noi cerchiamo di dare almeno l’indispensabile, ad esempio la possibilità di chiamare la famiglia una volta arrivato in Italia, l’iscrizione al servizio sanitario, le cure mediche, la regolarizzazione sul territorio. E cerchiamo di dare anche una dimensione di cura che sia anche una cura umana, affettiva. Vogliamo essere un punto di riferimento adulto, affidabile, per un soggetto che è in corso di formazione.

E per quello che riguarda l’affido? Parlava di 30 ragazzi affidati a famiglie…

L’esigenza principale è di garantire la sicurezza, per questo serve il tutore. Poi c’è anche l’esigenza di favorire delle accoglienze, dei percorsi di integrazione che siano il più vicino possibile alla dimensione umana del soggetto. Fin dall’inizio ho sempre creduto che l’accoglienza in famiglia fosse il migliore dei collocamenti possibili e, a poco a poco, anche al di là di ciò che potevo credere possibile, ce l’abbiamo fatta. Perché abbiamo scoperto tante famiglie disponibili ad aprire le porte della propria casa a questi ragazzi. Queste famiglie non ricevono neanche i finanziamenti che sarebbero previsti ma, nonostante tutto, sono talmente coinvolte nell’esperienza che vanno avanti. Se ricevessero quei finanziamenti è chiaro che lo farebbero con più facilità e questo ci consentirebbe anche di attuare l’affido omoculturale l’affido, cioè, a famiglie di seconda generazione di migranti già sul territorio. Spesso però una famiglia di seconda generazione arriva a malapena a fine mese, non può prendersi l’impegno materiale di un’altra persona. Se ci fosse quel minimo riconosciuto, non di più, sono sicura che scoppierebbe l’affido in famiglia.

Anche lei ha in affido uno di questi ragazzi. Cosa può dire a proposito di quest’esperienza vissuta in prima persona?

Lui è un ragazzo del Gambia, andato via per una problematica politica che riguardava il padre, non lui direttamente. Era convinto di andare in Libia a lavorare. Appena arrivato lì si è reso conto che le condizioni di sicurezza non c‘erano. È rimasto chiuso per due settimane fino a che non è riuscito a farsi mandare dallo zio dei soldi per poter attraversare il Mediterraneo e arrivare in Italia. Qui è stato affidato a me. Era bravo a giocare a calcio e ho avuto la possibilità di fargli fare un provino, durato un periodo che ha trascorso a casa mia. In quell’occasione è nato un affetto che poi ha portato all’affido. L’hanno preso nella squadra per cui aveva fatto il provino e quindi sta normalmente nella società, però io sono come la sua famiglia. Nel fine settimana, quindi, durante le vacanze, viene a casa. È diventato parte della famiglia.

In un’esperienza certamente positiva, ci sono state difficoltà da affrontare?

Sì, ci sono state. Io pensavo già di sapere tutto sui migranti, di conoscere una nazionalità piuttosto che un’altra, ma in realtà quando entrano dentro casa, cambia totalmente la prospettiva. Quando ho dovuto affrontare il periodo del Ramadan, è stata una prova durissima. Pensavo di essere aperta a tutte le religioni, e non è che ci fosse un preconcetto religioso, ma vedere un ragazzino che non mangiava, che faticava, è stato molto duro accettarlo e poi riuscire ad essere di supporto. È stato difficile stargli vicino in questa sua scelta, che per lui è ancora più importante perché gli serve a mantenere la sua identità.

Durante la conferenza di questa mattina parlava anche di una certa difficoltà ad un’integrazione vera.

Questa non è una cosa individuale, è collettiva, culturale, e riguarda il nostro passato. La paura da parte nostra del ‘nero’ che ci mangia, da parte loro del ‘bianco’ conquistatore… Non sai nemmeno da dove nasce questa paura reciproca, ma c’è. Allora un passaggio fondamentale è riconoscerlo, imparare a conviverci per poi superarlo! In molte famiglie c’è la tendenza a trattare questi ragazzi come se fossero nostri; in realtà questo non è corretto, perché è vero che ci sono delle differenze. Ma se queste differenze non si vedono, non si accettano, si fa un danno. È un lavoro difficilissimo, ma imprescindibile.

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Anna Minghetti

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