Aborto selettivo: con quale diritto?

ROMA, domenica, 13 giugno 2004 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

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Dopo il caso giudiziario di Catania, quello di Cagliari. È stato descritto da molti quotidiani nazionali come un secondo problematico esempio di applicazione della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Si è detto che, a partire da situazioni analoghe (la presenza di un embrione malato di talassemia), vi sono state due sentenze diametralmente opposte, ad indicare l’oggettiva ambiguità della legge. Si è invocata a gran voce la necessità di indire un referendum che modifichi una legge “assurda” e “oscurantista”. Si è infine fatto riferimento alle linee-guida applicative – approvate l’8 giugno 2004 dalla commissione ministeriale ad hoc e operative entro poche settimane – con cui verranno chiariti i punti dubbi, e in particolare verrà riconosciuto il diritto di rinunciare all’impianto anche dopo aver richiesto la fecondazione in vitro.

In realtà, va riconosciuta in primo luogo la profonda differenza fra i due casi. A Cagliari, infatti, si è trattato di due coniugi portatori sani di beta-talassemia, già genitori di una bambina di tre anni affetta dalla stessa malattia, che hanno concepito naturalmente due gemelli, di cui uno risultato positivo alla talassemia attraverso la villocentesi. La madre, sulla base dello stato depressivo insorto dopo la notizia, si è rivolta all’ospedale microcitemico di Cagliari chiedendo l’aborto del gemello malato. Il professor Giovanni Monni, responsabile del servizio di Ostetricia e Ginecologia, tuttavia, esige il ricorso al giudice prima di eseguire l’intervento perché teme di incorrere nelle sanzioni previste dalla legge 40 sulla procreazione assistita in merito alla “riduzione embrionale” (cfr. art. 13, c. 5). Il giudice emette con urgenza – la donna era ormai al limite dei tre mesi previsti dalla legge 194 sull’aborto – la sentenza, consentendo l’aborto “terapeutico” per tutelare la salute psichica della madre. E l’aborto viene tempestivamente eseguito.

Verrebbe da chiedersi come mai venga invocata così accoratamente una sentenza giudiziaria dal medico di un ospedale che dal 1977 ad oggi ha eseguito quasi 1600 aborti di feti talassemici. Si potrebbe addirittura pensare ad una tendenziosa e strumentale esibizione del caso per “compensare” la sentenza emessa poco più di un mese fa dal giudice Felice Lima del Tribunale di Catania (cfr. C. Navarini, Il supermarket dell’eugenetica, ZENIT, Servizio Giornaliero, 6 giugno 2004).

In effetti, nel caso di Cagliari la legge sulla procreazione assistita viene chiamata in causa impropriamente, in quanto nella normativa il divieto di selezione degli embrioni si riferisce a quelli prodotti in vitro, mentre non viene toccata – purtroppo – la regolamentazione dell’aborto che consente l’eliminazione di vite umane innocenti solo perché malate, mascherando ipocritamente tale crimine con l’intollerabile sofferenza materna che una simile condizione produrrebbe.

La riflessione deve quindi spostarsi semmai sulla legge 194, che dopo ventisei anni di vita continua a mostrare tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. In particolare, è doveroso interrogarsi con onestà e senza pregiudizi sulle conseguenze dell’aborto eugenetico e di quello selettivo – come nel caso in esame – che la legge di fatto consente, facendoli tutti rientrare sotto lo smisurato ombrello dell’“aborto terapeutico”.

Si esprime acutamente su questo punto il professor Gonzalo Miranda, decano della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, nella seguente dichiarazione rilasciata appunto sul caso di Cagliari:

“I mezzi di informazione hanno sottolineato la mostruosità di una legge che obbliga a tenere embrioni che corrono il rischio di essere malati. Vorrei precisare che in casi come questo di Cagliari non si tratta di un pericolo, ma di una realtà. Il figlio talassemico c’è già, e sta crescendo nel grembo materno. Che cosa significa allora impedire lo sviluppo dell’embrione malato se non uccidere un figlio per il solo fatto che possiede una patologia?”

“E, mi chiedo, quale differenza sostanziale si dà fra la sua eliminazione in grembo e la sua soppressione dopo la nascita, che chiunque giudicherebbe un abominio? Ancora, quali diversi diritti aveva la prima figlia per nascere ed essere amata e curata pur con la sua malattia? O bisogna forse ritenere quella figlia un errore? I genitori non pensano di certo che sarebbe stato meglio non averla mai avuta, tant’è che desiderano ‘darle un fratellino’”.

“Il figlio malato, di età embrionale, fetale, neonatale o infantile che sia, merita con ogni evidenza le stesse attenzioni e dedizione degli altri figli, anzi, le richiede maggiormente in ragione della sua maggiore debolezza. La sua vita non vale meno di quella sana, e soprattutto la sua malattia non è una colpa, per la quale possa essere punito con la morte proprio da chi ha il compito di accoglierlo e custodirlo”.

Se questi aspetti, ad un’analisi attenta, risultano chiari e inconfutabili, più sfumata si presenta la discussione delle motivazioni psicologiche, talora molto sottili, che vengono addotte dai fautori della selezione o “riduzione” embrionale/fetale. Osserva il professor Miranda:

“Si parla molto dello stato psicologico della donna. Ma, premesso che una forma depressiva può cogliere chiunque in vari momenti della vita e per diverse ragioni, senza con ciò identificare eventuali persone responsabili dello stato alterato come mali da estirpare, occorre riflettere con estrema attenzione sulle condizioni nelle quali si troverà la donna dopo l’aborto”.

“Già da tempo è nota in letteratura l’incidenza della sindrome post-abortiva in condizioni, per così dire, ordinarie. La riduzione volontaria di una gravidanza gemellare complica ulteriormente il quadro, proprio per il fatto che il gemello sano nascerà, e rappresenterà nel cuore della madre il richiamo continuo e martellante a quel che è accaduto, al fatto cioè che l’altro fratello, per il solo fatto di essere malato, non è lì con loro”.

“Non si tratta di fare del terrorismo psicologico: dentro di sé una madre è realmente lacerata dall’esperienza dell’aborto volontario, e deve affrontare un lutto di assai difficile elaborazione per gli inevitabili dubbi e sensi di colpa che si vengono a creare. Figuriamoci quando c’è anche un gemello a costituire il ricordo vivente del figlio abortito”.

“In altre parole, se c’è un problema psicologico materno legato ad una gravidanza, ad esempio per una malattia o anomalia diagnosticata al figlio, l’aborto non rappresenta una terapia, ma piuttosto un aggravamento della situazione della donna. Ci sono modi molto più efficaci per dare sostegno e aiuto ad una madre in difficoltà, prima e dopo la nascita del bambino eventualmente malato. Vale la pena di ricordare un’illuminante frase del genetista francese Jerome Lejeune (1926-1994): ‘pesa molto di più un bambino sulla coscienza che in braccio’”.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

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ZENIT Staff

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