Aborto: il lutto proibito e la necessità di riconciliazione

Intervista a Monika Rodman Montanaro

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di Carmen Elena Villa

BOLOGNA, mercoledì, 7 luglio 2010 (ZENIT.org).- “Non vi lasciate prendere dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza”, diceva Giovanni Paolo II nell’Enciclica Evangelium Vitae, rivolgendosi alle donne che avevano fatto ricorso all’aborto.

“A questo stesso Padre ed alla sua misericordia voi potete affidare con speranza il vostro bambino”, scriveva il Pontefice in questo testo che oggi, a 15 anni di distanza, ha un’attualità ancor maggiore. “Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita”, esortava.

Per riconciliare un lutto che spesso resta nascosto per anni, è nato negli Stati Uniti un programma chiamato Rachel’s Vineyard (La Vigna di Rachele), che attraverso riunioni, accompagnamento e ritiri spirituali cerca di aiutare le donne che hanno abortito e le persone che si sono viste coinvolte in eventi di questo tipo (partner, medici o genitori) a elaborarne il lutto e a curare la ferita provocata da questa decisione.

Il nome “La Vigna di Rachele” deriva dalla citazione di Geremia 31, 15- 17 che parla del lamento di Rachele e del dolore che elabora dopo che i suoi figli sono morti in guerra. Il programma è oggi presente in più di 20 Paesi. Dal 23 al 25 luglio si realizzerà un ritiro a Bologna.

Su questo apostolato della riconciliazione, ZENIT ha intervistato la teologa Monika Rodman Montanaro, che ha lavorato all’iniziativa in California ed è ora la coordinatrice del progetto in Italia. Per anni è stata volontaria nella pastorale familiare occupandosi soprattutto dei traumi post-aborto.

Com’è nata questa iniziativa?

Monika Rodman Montanaro: E’ nata negli Stati Uniti nel 1984. Dal 1975 i Vescovi statunitensi hanno avviato un programma pastorale a favore della vita, dopo che l’aborto era stato legalizzato (gennaio 1973). Hanno detto: “Vogliamo sviluppare iniziative per accompagnare le donne cattoliche, le coppie, visto che ora l’aborto è legale e la gente pensa che forse va bene”. Hanno capito che queste donne avevano bisogno di un invito visibile e concreto per riconciliarsi. La fondatrice si chiama Vicki Thorn e viene dall’Arcidiocesi di Milwaukee, nel Wisconsin.

Fin dall’inizio i Vescovi statunitensi hanno sostenuto fortemente questa iniziativa perché ne hanno visto i frutti nelle parrocchie, dove queste donne si sono convertite e si sono impegnate molto nell’essere testimoni per altre donne.

Come vi siete resi conto che era necessario anche un ritiro di riconciliazione?

Monika Rodman Montanaro: La fondatrice di quel percorso si chiama Theresa Burke, psicoterapeuta. All’inizio non si occupava della problematica post-aborto, ma dirigeva un gruppo per donne con disturbi alimentari. Parlavano di tutto: abusi, partner sbagliati, rapporti lesbici. Una sera una delle donne ha parlato dell’aborto, e tutte hanno avuto una reazione fortissima. Sette donne su otto avevano abortito, ma non ne avevano mai parlato.

Per questo si parla di un lutto proibito…

Monika Rodman Montanaro: Infatti. Quello che hanno vissuto queste donne è un vero lutto. Fin dall’inizio è stato visto come un lutto proibito. Neanche nella loro professione era permesso parlarne. Per questo sono nati i gruppi settimanali in cui inizia l’elaborazione del dolore. Bisogna piangere, permettere che le lacrime cadano perché la depressione e tanti comportamenti autodistruttivi hanno origine in questo dolore che portano dentro di sé. E’ un’esperienza di morte per le minacce dal partner, o il rifiuto dei genitori. Ci sono tante paure che portano a questa scelta disperata. Non è una testimonianza di una libertà come vuole far credere il mondo. E’ una testimonianza di mancanza di libertà. Lo capiamo ascoltando le storie delle donne stesse e delle coppie.

Quali sono secondo lei i principali traumi post-aborto che emergono anni o magari anche decenni dopo questo fatto per il “lutto proibito”?

Monika Rodman Montanaro: Quando si ascolta la storia di una donna che è incinta e deve decidere cosa fare, si capisce subito che è sottoposta a tante pressioni, spinte e paure. Direi che l’aborto viene scelto e deciso in una condizione di paura tremenda. In preda alla paura non scegliamo bene le cose. Diventa una scelta disperata: non essere più incinta.

La donna che abortisce deve sopprimere l’istinto materno che spesso sente nel corpo e nell’anima solo per andare avanti con questa scelta disperata. Pensa che portare avanti la gravidanza non porrà fine a questa paura. Sopprime tutto ciò che sente e crede, e sa che porta dentro di sé un bambino e che è Dio che lo sta formando nel suo grembo. Sopprime i suoi valori per andare avanti con un programma proposto da altre persone e dalla cultura di oggi. Sa che è una gravidanza non desiderata. Nel cuore ha un grande conflitto, e alla fine si arrende all’ aborto. Non è una scelta liberatrice, ma un arrendersi a una situazione di abbandono e di pressione. Sa che ha fatto morire un bambino, il suo bambino, ma lo deve negare perche la realtà è troppo dolorosa, anche se socialmente accettabile in molti Paesi.

Se muore qualsiasi altro familiare, la cultura capisce che serve un lutto, ma questo è un lutto proibito, come sotterraneo, che si manifesta in altri modi: senso di colpa, rabbia contro le persone che hanno spinto ad abortire… Si manifesta in vizi come l’abuso di alcool o di altre sostanze, o in altri comportamenti distruttivi, o ancora in disturbi alimentari e autopunizioni.

L’aborto porta a molte rotture di coppia?

Monika Rodman Montanaro: Senz’altro. Ho un’amica che lavora per il tribunale della California e mi ha detto: “Monika, non posso scendere nei dettagli, ma posso dirti che nei casi di richiesta di nullità figurano spesso degli aborti”. L’aborto è molto collegato ai fenomeni sociali negativi. Vogliamo aiutare le coppie a non separarsi, a onorare il proprio corpo, la sessualità. L’aborto è come una bomba, una mina. Speso non esplode subito, ma 10 anni o 20 anni dopo. Quando la donna non può negare più questo fatto.

Com’è l’opera di accompagnamento che realizza “La Vigna di Rachele”?

Monika Rodman Montanaro: Attraverso l’ascolto. Forse sono donne praticanti, forse non lo sono più perché l’aborto è vissuto come un peccato imperdonabile. Se c’è un cuore pentito, il Signore lo perdonerà. Forse sono state altre persone a scegliere in realtà quell’aborto. Ci sono della madri che portano le figlie in clinica. E venuta da noi una donna la cui madre voleva che abortisse, e lei è fuggita. Due settimane dopo, la madre l’ha obbligata ad abortire e lei ha ceduto. Noi invitiamo non solo la donna che ha abortito, ma anche coloro che l’hanno consigliata o costretta a farlo.

Cerchiamo di curare le ferite nell’anima individuale. Il tutto è gestito da un’équipe, con la presenza di una psicologa, un sacerdote e altri membri laici. Spesso gli altri membri dell’équipe sono donne e uomini che sono passati per l’esperienza dell’aborto e hanno compiuto un discernimento per poter raggiungere le altre persone che portano su di sé queste ferite.

Che frutti porta questo apostolato?

Monika Rodman Montanaro: Il fatto che queste donne, una volta riconciliate, diventino apostoli per le altre donne, apostoli a favore della vita perché dicono “Non prendere quella via, mi è costata molto. Fai nascere questo bambino, ce la farai, io sono al tuo fianco”. Diventano gli apostoli alle donne che devono decidere su una gravidanza, gli apostoli della divina misericordia. E’ una cosa bellissima. Questo è un campo fertilissimo.

C’è qualche storia che l’ha toccata in
modo particolare?

Monika Rodman Montanaro: Una donna di 43 anni ha abortito 10 anni fa. Poi è nata la sua bambina e mi ha detto: “Questa realtà mi ha fatto capire cosa ho fatto”. Le è stata diagnosticata una depressione post-parto, ma nessuno le ha chiesto se aveva abortito. Ora vuole fare il ritiro con suo marito. Noi incoraggiamo le donne sposate ad andare in coppia, anche se il marito non è il padre del bambino abortito. Questa è una dimostrazione di come questa donna aveva seppellito questa memoria che poi è scattata, facendo riaprire questa sorta di “vulcano di lutto”.

Come mai una donna che ha abortito e che si è allontanata della Chiesa cerca nei valori del Vangelo la sua riconciliazione?

Monika Rodman Montanaro: Noi cerchiamo di facilitare un incontro col Cristo misericordioso, con quel Gesù che forse è rimasto un po’ lontano. Con la Divina Misericordia. Vogliamo favorire un incontro con il cuore misericordioso della Chiesa e lo facciamo in équipe. Non c’è solo il sacerdote, ma anche la psicologa, la donna che ha abortito in passato… Insieme siamo il corpo di Cristo. Il Divino Medico opera attraverso ognuna. Una psicologa cattolica capisce che è il cuore che deve guarire. Alla fine, è Cristo che guarisce.

Per ulteriori informazioni, http://www.rachelsvineyard.org/

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ZENIT Staff

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