A piedi da Parigi a Gerusalemme, in luna di miele (Parte III)

Il diario di Mathilde ed Edouard Cortès

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ROMA, giovedì, 22 novembre 2007(ZENIT.org).- Partiti da Parigi il 17 giugno scorso, Mathilde ed Edouard Cortès (www.enchemin.org) hanno percorso a piedi oltre 3700 chilometri, mendicando ospitalità e cibo.

Un viaggio di nozze “per la pace e l’unità dei cristiani”, fatto di sacrifici e sofferenze (all’arrivo in Turchia sono stati aggrediti), ma fatto anche di incontri indimenticabili.

Pubblichiamo di seguito il terzo ed ultimo estratto del loro diario di viaggio (i primi due sono stati pubblicati il 13 e il 14 novembre 2007).

* * *

Lunedì 1° ottobre, 106° giorno. 30 chilometri Kacanik (Kosovo/Serbia) – Skopje (Macedonia).

2859 chilometri da Parigi

Cinque chilometri all’ora da 106 giorni. Quindici chilometri dalle sette di mattina. Gli fanno male i piedi e lo commiseriamo, ricordando la nostra prima settimana di dolori dopo la nostra partenza da Parigi. Si toglie le scarpe per la seconda volta e cerca invano di alleviare le sue sofferenze. Infila un altro paio di calzini. Le altre volte, spiega, non aveva le scarpe nuove come adesso. E tuttavia questa strada che collega il suo villaggio kosovaro della Serbia alla capitale della Macedonia, Sami l’ha già percorsa due volte.

La prima volta aveva vent’anni. Senza un soldo in tasca, doveva comprare per i suoi studi un libro che si trovava solo a Skopje, a quei tempi ancora yugoslava. Non potendo pagare il treno ed il libro, aveva optato per il cammino a piedi ed il libro.

Si ferma per riprendere fiato. Allenta le scarpe. Si nasconde dietro la fermata di un autobus per fumare una sigaretta, lontano dagli sguardi degli altri musulmani. Siamo in pieno ramadam. La sigaretta non attenua il suo dolore ai piedi, ma gli dà l’energia per camminare in testa. E’ dall’alba che lo seguiamo. E’ la nostra guida. E’ sempre rassicurante in questa regione del Kosovo, dove bisogna infilarsi fra le bande dei cani erranti, i banditi delle piccole e grandi strade, le mine. “Toh, guardate: è il cementificio dove ho lavorato per anni. Grazie al prezioso libro che ho comprato grazie ai miei piedi, ho potuto studiare economia. In questa fabbrica ero contabile. Ma i comunisti mi hanno licenziato, poiché appartenevo ad un gruppo favorevole all’indipendenza del Kosovo”.

E’ da una settimana che stiamo attraversando il Kosovo, provincia della Serbia, nel suo difficile cammino verso l’indipendenza. Solo due giorni fa eravamo con coloro che Sami considera i suoi nemici, i Serbi, minoritari ed oggi minacciati dalle maggioranze albanesi. “Io – dice Sami camminando – ne ho passate di cotte e di crude con i serbi ed oggi, capite, non è più possibile vivere con loro. E’ impossibile”.

Noi andiamo con il pensiero rivolto alla famiglia serba, incontrata cinquanta chilometri prima, che vive circondata dal filo spinato a Graniça nel recinto del monastero ortodosso. Classificato patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco, questo monastero è nella lista del patrimonio in pericolo. Cosa succederà di queste pietre e di questi uomini e queste donne che vi hanno trovato rifugio attorno alla comunità di clausura dopo l’indipendenza del Kosovo? Cosa accadrà a Marta, la bimba di 6 anni, che dopo aver giocato una sera con noi ci ha offerto il suo unico giocattolo, un orsacchiotto, dicendoci: “ E’ per voi, per il vostro futuro primo bambino”. Fra il 1999 e il 2004 oltre 120 chiese e monasteri sono stati saccheggiati, bruciati, fatti saltare con la dinamite. Ciò che le pietre hanno subito in Kosovo, gli uomini lo vivono nella loro carne e nella loro memoria.

Attraversare la polveriera dei Balcani è camminare sulle uova. Percepiamo l’odio tra una famiglia e l’altra. Ma in un campo come in un altro, i croati, i serbi, i bosniaci, gli albanesi hanno in comune l’accoglienza verso il viaggiatore. Il nostro cammino verso oriente è diventato da tre mesi un susseguirsi di incontri che hanno riconfortato i nostri cuori. Decine di famiglie hanno riempito il nostro stomaco e le nostre bisacce, sempre vuote, secondo il nostro desiderio e vuote di denaro, ma riempite di cavoli, pane, pomodori, peperoni, uva, fichi.

Dopo averci ospitati da lui per 24 ore, Sami ci teneva ad aprirci la strada e farci passare il confine fra il Kosovo e la Macedonia. “Vi sono al massimo 30 chilometri fino alla capitale. Prima che sia terminato il digiuno del ramadam questa sera, arriveremo da mia nipote, dove siamo stati accolti durante il conflitto”. La seconda volta che Sami ha percorso a piedi questa strada, è stato nel 1999. Aveva 62 anni. Vi era la guerra fra serbi e albanesi. Egli è fuggito con la sua famiglia attraverso queste montagne, con colonne di albanesi che si rifugiavano in Macedonia. “Abbiamo aiutato i vecchi e i bambini issandoli su dei cavalli” racconta. Le montagne erano minate, ma io conosco questi sentieri come le mie tasche. Siamo passati vivi e siamo rientrati, vivi, tre mesi dopo”.

Attraversiamo delle strette gole. La strada fiancheggia un fiume. Con noi è la terza volta che Sami percorre questa strada. Sami è la prima persona, che dalla nostra partenza da Parigi, ci accompagna per un’intera giornata di cammino. Questa mattina, i suoi figli non ci credevano. Eppure, quando abbiamo cominciato gli addii, lui ha annunciato fieramente che sarebbe partito con noi. Suo figlio Farid ha pensato che fosse impazzito. Sua figlia Ginameth è scoppiata a ridere ed ha sussurrato all’orecchio di Mathilde che Sami sarebbe rientrato in taxi a meno di cinque chilometri. A 70 anni, Sami non ascolta le lamentele dei suoi, che considera già vecchi di testa. Benché il suo francese sia perfetto, a volte inventa delle parole adatte alla nostra situazione. “Se vengo a ‘pedonare’ un po’ con voi – dice – è perché voglio dimostrare che alla mia età sono rimasto ancora giovane. Faccio come voi, risparmio sui soldi per il trasporto, faccio dello sport. A camminare ci si guadagna sempre”.

Nonostante i suoi capelli grigi, la sua statura affilata ed il suo viso a lama di coltello, Sami ha gli occhi ben aperti sul suo futuro. E’ importante restare giovane di spirito, poco importa il corpo, poco importa che oggi i piedi gli facciano male. Egli apre il cammino, noi facciamo fatica a seguirlo. Quattro ore dopo, gridiamo al vecchio di fermarci un po’ per riposare. Al riparo dagli sguardi poco dopo la frontiera, condividiamo una razione militare offerta qualche giorno fa dai militari americani della KFOR. Bevendo un frullato di latte alla fragola, Sami afferma: “Gli americani sono amici degli albanesi, forse vengono qui per l’uranio o per destabilizzare l’Europa, ma comunque ci aiutano a raggiungere l’indipendenza. Il 10 dicembre prossimo, forse proclameremo l’indipendenza del Kosovo. Lo sogno da tanto tempo. Tutti noi ci auguriamo che gli americani rimangano. Gli dobbiamo tutto”.

Sami si strofina i piedi, si toglie un paio di calzini e rimette le sue scarpe di cuoio verde. Stiamo camminando su un sentiero in terra battuta. Al limite delle sue forze, si ferma dopo 20 chilometri e si toglie le scarpe. Comincia a camminare in calzini. Rivedo me stesso, tre mesi prima, percorrere in calzini 30 chilometri nella campagna della Borgogna. Fuori questione che chi ci ha accolti ieri in modo così amichevole, subisca questi dolori. A mia volta mi tolgo le scarpe e gli porgo le mie scarpe da basket, numero 42, ammorbidite da 2.800 chilometri di marcia. Le prova. Sono un po’ grandi, ma può andare. Io provo le sue scarpe. Hanno la taglia 41. Sono un po’ corte, ma in viaggio ci si adatta. “E’ molto meglio – grida Sami – adesso me la cavo come un giovane”. Come non sacrificarci per dieci chilometri, due ore, per l’uomo che generosamente ci ha aperto il suo universo. Siamo stati n
utriti, alloggiati, coccolati. Abbiamo condiviso con la sua famiglia, nel salone orientale, tè, caffè turco ed un pasto da ramadam. Sua nipote Ginameth ha lavato la nostra biancheria ed ha offerto a Mathilde del profumo ed una canottierina “sexy”. “Siete in viaggio di nozze – ci ha detto – è normale che tu ti faccia bella. In tutti i casi, con la tua unica camicia blu, il tuo viso senza trucco, ha l’occasione di amarti veramente, tuo marito”. Tutta la famiglia si è data da fare per offrirci la camera più bella. Un letto matrimoniale in alternativa ai nostri tappeti di terra, un piumone che ha sostituito i nostri sacchi a pelo. Un viaggio di nozze come il nostro significa esporre il nostro amore alle intemperie della strada, ai capricci di uomini buoni o cattivi, alle tempeste che esplodono in una coppia. La marcia è una messa a nudo, dove la volontà di amarsi trionfa sui sentimenti passionali. Ginameth ha ragione. Le maschere sono cadute, l’amore vero ha per me un volto, quello di Mathilde. Sulla via dell’Oriente incontro centinaia di uomini e di donne. In questa marcia a due, incontro mia moglie, una donna che fa per me.

In viaggio verso Skopje, mi trascino per la stanchezza. Le scarpe di Sami non sono esattamente della mia misura. Mathilde e Sami camminano davanti. Tra un’ora saremo nuovamente nel calore di un focolare. Dieci chilometri di costrizioni danno il colpo di grazia alle unghie dei miei piedi. Le unghie dei miei alluci cadranno la sera stessa. All’alba, prima di lasciarci, Sami piange tutte le sue lacrime. “Ho perso mia moglie tre anni fa, ho ‘pedonato’ con voi in sua memoria, un viaggio di nozze postumo. Camminerò ancora a lungo con voi, verso Gerusalemme”.

Mathilde ed Edouard Cortès

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione