A 40 anni dal primo testamento biologico, è ancora eutanasia

di Renzo Puccetti*

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ROMA, domenica, 8 novembre 2009 (ZENIT.org).- Quando l’avvocato Luis Kutner presentò pubblicamente il primo testamento biologico nel 1967, la sua iniziativa avvenne per conto della Euthanasia Society of America, che provvide alla diffusione e divulgazione del documento allo scopo di promuovere le istanze eutanasiche. Sono passati da allora 40 anni, ma il dibattito attorno al testamento biologico non pare proprio essersi affrancato dalla questione dell’eutanasia.

Non si tratta di una questione sollevata per suscitare inesistenti fantasmi, ma dalla constatazione della realtà che ci viene indicata e attraversa il mondo occidentale non risparmiando l’Italia.

Il 26 settembre 2006 viene depositato un disegno di legge alla Camera dei Deputati dal titolo significativo: “Disciplina dell’eutanasia e del testamento biologico”. Quando il 27 giugno 2006 il senatore Marino deposita il proprio disegno di legge per la istituzione del testamento biologico, concepisce uno strumento da redigere obbligatoriamente da parte di tutti i cittadini, vincolante per il medico, senza alcuna limitazione nel contenuto. Successivamente la commissione Giustizia, relatore Felice Casson, emette un parere secondo cui “l’idratazione e la nutrizione parenterale (e la ventilazione artificiale) praticate in un organismo altrimenti privo di vitalità, per assoluta e definitiva incapacità di autonoma idratazione e idratazione e respirazione in via ordinaria costituiscono accanimento terapeutico“, aggiungendo inoltre che nell’esecuzione delle direttive anticipate i sanitari “sono dichiarati esenti da ogni responsabilità […] precisando che l’esonero riguarda ogni forma di responsabilità, anche di natura penale“.

Appare verosimile pensare che il combinato della vincolatività delle istruzioni e l’assenza di qualsiasi responsabilità penale nel darvi corso possa costituire una porta spalancata alla giurisprudenza eutanasica. Nel confronto sulla materia è piombato come un masso l’esito del caso Englaro, che ha oggettivamente posto le basi per una prassi eutanasica attraverso la condotta attiva di interruzione del sostegno vitale, seppure limitandola ai casi di stato vegetativo dichiarato permanente sulla base di un criterio probabilistico (oggettivamente quindi non permanente, ma solamente persistente) e secondo volontà ricostruite retrospettivamente sulla base di testimonianze e di indizi.

L’episodio ha fatto scattare in molti l’idea della necessità di una legge che disciplini la materia, giustamente ritenendo necessario porre un argine ad una giurisprudenza che si è spinta ad ammettere la disponibilità della vita umana attraverso una procedura ritenuta inammissibile per disporre di qualsiasi altro bene di natura meramente patrimoniale (nessun tribunale accoglierebbe la richiesta di destinazione dei beni sulla base di semplici testimonianze facenti riferimento a dichiarazioni rese a voce del defunto).

Come in una battuta di caccia in cui i battitori fanno un gran chiasso per spingere la preda in una determinata direzione pianificata, vi sono ragionevoli motivi per temere che la direzione intrapresa per scongiurare la pista eutanasica vada invece nel senso desiderato da quanti ardono dal desiderio di aprire una breccia e porre fine “alla concezione sacrale della vita umana“.

La partita è estremamente delicata; vale la pensa ricordare quanto affermato dalla filosofa australiana Helga Kuhse in occasione della conferenza mondiale delle società eutanasiche del 1984: “Se riusciamo a fare accettare alla gente la rimozione di ogni trattamento ed assistenza, specialmente del cibo e dei liquidi, ci si accorgerà di come sia doloroso questo modo di morire e quindi, nel migliore interesse del paziente, accetteranno l’iniezione letale.

Il caso di Kerrie Wooltorton, morta suicida a 26 anni a causa di una sindrome depressiva, giunta viva in ospedale, ma non soccorsa dai medici inglesi che temevano di essere denunciati per mancato rispetto di quello che la giovane donna aveva scritto come testamento biologico prima del suicidio, pone drammaticamente a tema la concreta ed insidiosa trama di relazioni che può legare il testamento biologico all’eutanasia.

Al tam-tam giudiziario ha iniziato a fare da corollario la fioritura di iniziative comunali volte alla istituzione di registri dei testamenti biologici caratterizzate dalla assai incerta valenza giuridica, ma comunque volte ad accreditare una fantomatica esigenza di riconoscimento delle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) proveniente dai cittadini. I numeri forniti da una breve verifica di Andrea Bernardini rispecchiano l’eloquente titolo dell’articolo pubblicato su Avvenire il 29 Ottobre: “Toscana, troppi registri, pochi registrati”.

Ma la battuta di caccia non può non prevedere un’esca. Personalmente la individuo in quei melliflui tentativi che come un mantra invitano al “disarmo bilaterale”, all'”abbandono delle ideologie”, all’imboccare la strada del “diritto mite”, dimenticando di denunciare la violenza ideologica dell’intrusione giurisprudenziale. L’ultima sirena in tal senso mi sembra possa essere individuata nelle conclusioni annunciate alla stampa scaturite dal seminario a porte chiuse promosso dalla fondazione Farefuturo, nata con il contributo essenziale dell’attuale presidente della Camera, e dalla Konrad Adenauer Stiftung, la fondazione tedesca che afferma di ispirarsi alle idee del grande statista tedesco. “Bioetica e biopolitica” è stato il titolo scelto dagli organizzatori, ma a dire il vero, di bioetica pare difficile si sia parlato. Non si capisce infatti come un seminario di bioetica possa dirsi tale in assenza di un qualche relatore medico, figura di cui non si rileva traccia tra i resoconti del convegno. Non è pecca formale, ma sostanziale. La bioetica o è interdisciplinare o non è.

Chissà chi e come avrà informato gli estensori del documento finale di come funziona effettivamente un testamento biologico quando lo si deve applicare nella realtà, laddove, fino a prova contraria, sono sempre coinvolti, quantomeno un paziente ed un medico deputato ad assisterlo. Indifferenti a questo che evidentemente gli organizzatori hanno ritenuto un dettaglio di poco conto, il documento finale, seppure con cenni assai fumosi, si limita a condannare la sola eutanasia attiva, probabilmente non riuscendo o volendo distinguere tra lecita sospensione di cure sproporzionate ed eutanasia passiva, cosa che non stupisce se l’orizzonte di riferimento è il relativismo etico e la sua declinazione sociologica rappresentata dall’esaltazione del multiculturalismo.

Certo è che diventa difficile comprendere, in presenza di una relazione medico-paziente ancora in atto, l’opposizione all’eutanasia attiva da un lato e il sostegno dall’altro a pratiche destinate a condurre a morte certa il paziente attraverso condotte attive di interruzione, od omissive di astensione dall’impiego di sostegni vitali proporzionati. Incuriosisce conoscere come le eminenti competenze giuridiche presenti al convegno siano riuscite a superare le difficoltà derivanti dall’articolo 40 del codice penale che così recita: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo“; chissà perché l’iniezione letale su richiesta del paziente non va bene, ma lasciare morire di sete è un atto dovuto, se si tratta di una volontà dichiarata precedentemente.

Desta non poca inquietudine la tesi secondo cui la legge da poco approvata dal Parlamento tedesco sarebbe un modello di mediazione cui ispirarsi. Il solo pensiero che per legge le volontà espresse dal paziente siano vincolanti per il medico anche quando ricostruite a posteriori sulla base di semplici testimonianze, il fatto che la volontà del paziente venga fissata in modo arbitrario a dichiarazioni inattuali e decontestualizzate superabili solamente in caso di sopraggiunte innovazioni terapeutiche non previste dal paziente, fanno rabbrividire perché rivelatrici di
una paurosa non conoscenza di almeno venti anni di studi clinici che hanno esplorato la reale natura del testamento biologico, pubblicamente accessibili, tra l’altro oggetto di una nostra recente revisione.

Il V congresso nazionale della Società Medico-Scientifica Promed Galileo offrirà l’occasione per cercare di superare un certo sonno della ragione attraverso un confronto aperto tra competenze filosofiche, giuridiche, mediche e politiche di fronte ad una platea di centinaia di medici che interverranno al congresso il prossimo sabato a Pisa.

* Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno.

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ZENIT Staff

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