L’aborto è un omicidio o un diritto?

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ROMA, domenica, 28 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica le risposte ad alcune domande riguardanti l’aborto elaborate da Carlo Casini, già magistrato di Cassazione e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. Casini è inoltre Presidente del Movimento per la Vita italiano, membro della Pontificia Accademia per la Vita e docente presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma.

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C’è chi sostiene che l’aborto é un omicidio, altri invece lo considerano come un diritto della donna. Chi ha ragione?

Certamente è inammissibile un diritto della madre di distruggere il proprio figlio. L’ abortismo estremo invoca la libertà e la chiamiamo diritto di autodeterminazione. Ma la libertà finisce dove cominciano i diritti di altri. Il concepito è un “altro”. Chi potrebbe sostenere che i genitori hanno il diritto oggi (nelle epoche antiche c’era) di uccidere i figli già nati? Qual è la differenza tra il neonato o il bimbo che sta nel seno materno? Per quanto riguarda il nascituro nessuna in termini di qualità: la distanza tra un feto e un neonato è meno grande della distanza tra un neonato e un adulto. Tuttavia non si deve dire che l’aborto è un omicidio o che le donne sono assassine. L’aborto è un aborto, cioè la uccisione di un figlio non nato, l’infanticidio è l’uccisione di un bimbo nel corso del parto o immediatamente dopo di esso, l’omicidio è l’uccisione di un uomo che non si chiama più né feto, né infante. Queste sono definizioni giuridiche.

Tuttavia ci sono due ragioni più profonde per cui é bene non usare i termini di omicidio e di assassinio. In primo luogo c’è la particolare irripetibile situazione della gravidanza, in cui un essere umano vive nel corpo di un altro essere umano. La sua principale difesa, che poi è quella di sempre, di miliardi di mamme che hanno fatto la storia del mondo, sta nella mente e nel cuore della madre. Il bimbo è sempre lo stesso, ma bisogna tener conto della sua particolare situazione.

In secondo luogo normalmente nell’aborto le vittime sono due: il figlio, ma anche la madre. Nella maggioranza dei casi ella subisce la pressione della società, dei medici, dei familiari, del gruppo di amici, del padre del bambino, dei giornali, della televisione. In ogni caso la giovane donna è abbandonata a una angosciante solitudine (“è affar tuo, veditela te!”). In molti casi, ad aborto avvenuto, ella porta nel segreto del suo cuore il dolore di un lutto. Gli specialisti parlano di “sindrome post-aborto”. Spesso la sua giovinezza, al di là delle apparenze, resta come soffocata. Non é opportuno spargere sale sulle ferite. La società tutta intera, in particolare il “popolo della vita” devono essere accoglienti anche verso coloro che hanno abortito. È anche colpa della società e nostra se non siamo riusciti a restituire loro il coraggio e la libertà di accogliere la vita. Perciò non é bene usare la parola “omicidio” pur sapendo che l’aborto è l’uccisione di uno di noi.

Dopo l’invito da parte dell’ONU a una “moratoria” riguardo all’esecuzione della pena di morte, il Direttore del Il Foglio, Giuliano Ferrara, ha lanciato l’idea di una “moratoria” riguardo all’aborto. Non è una provocazione offensiva per le donne?

No. Dobbiamo essere grati a Ferrara per aver clamorosamente introdotto sui mezzi di comunicazione sociale un paragone che da molto tempo era nel pensiero e nella riflessione cristiana. Naturalmente ottenere la sospensione delle condanne a morte è obiettivo ben più semplice del non portare a compimento in milioni di casi un proposito di aborto. Ma ciò che il parallelo vuole esprimere non è questo. Il confronto grida ciò che è vero: il figlio concepito è un essere umano, così come lo è il condannato a morte, con la differenza che il primo è innocentissimo e viene eliminato dall’aborto, spesso senza nemmeno l’accertamento della necessità di arrivare ad un così tragico evento; il secondo è condannato perché ritenuto colpevole dei più gravi delitti a seguito di una serie di giudizi con le garanzie del processo. La richiesta di una grande moratoria sull’aborto vuol confermare anche il principio dell’uguale indistruttibile dignità di ogni essere umano. Se nemmeno il delinquente può distruggerla del tutto con le sue stesse mani, cosicché resta insopprimibile il suo diritto alla vita, com’è possibile non rispettare la dignità e il conseguente diritto alla vita che le è inerente nel concepito?

Che questo sia il senso della “moratoria” è tanto vero che Ferrara non chiede altro che una integrazione dell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti umani per indicarvi che il diritto alla vita deve essere riconosciuto “fin dal concepimento”.

Si tratta di un’istanza nobilissima, importantissima, capace di restituire verità a tutta la dottrina dei diritti umani, oggi talora utilizzata per aggredire, paradossalmente, l’uomo che ne titolare.

Ovviamente il rumore suscitato dalla proposta di Ferrara e dall’insistenza caparbia con cui egli l’ha portata innanzi fino presentare per le elezioni politiche del 2008 un’autonoma lista con il simbolo “aborto, no grazie” – iniziativa giudicata da molti eccessiva e non opportuna – ha ricadute anche sulla Legge 194, sebbene Ferrara ripeta di non volerla toccare.

Soprattutto Ferrara ha dato una scrollata al muro di incomprensione tra i c.d. “cattolici” e i c.d. “laici”. Egli proviene dalle fila dei secondi e li costringe ad uscire dall’immobilismo mentale dei luoghi comuni. E’ anche questo un aspetto da cui potranno derivare frutti molto positivi in termini di dialogo e di pacificazione.

Non si tratta di condannare e giudicare le donne. Si tratta piuttosto di criticare nel suo complesso una società che non sa pienamente riconoscere la dignità umana e che crede di aiutare le donne nascondendo loro la verità.

È la donna che sopporta il peso di una gravidanza: non é forse giusto che sia lei a decidere di portare a termine questo processo? Il vecchio slogan “l’utero è mio” non ha quindi un suo fondamento di verità?

Certo che l’utero appartiene alla donna! Ma il figlio che dopo il concepimento sta dentro l’utero non è proprietà della donna. Nessun essere umano può essere in proprietà di alcuno. Egli è ospite della madre. Certo: é un ospite particolare. Giustamente si parla di “dualità nell’ unità”, ma la “dualità”, comunque, riconosce la presenza di un altro.

Il concepito non é un “processo”. Certamente la crescita dei capelli o delle unghie è un “processo” e solo colui al quale appartengono capelli ed unghie può decidere se farli crescere o tagliarli. Ma non si può decidere se un figlio debba vivere o morire. Detto questo, va giustamente riconosciuto che la gravidanza è una condizione particolarissima che coinvolge in modo decisivo la donna incinta, non gli altri. Ma questo significa affetto, aiuto, rispetto, tenerezza da parte di tutti, ed anche fiducia nella capacità di accoglienza, di dono, di coraggio e di libertà della donna, non attribuzione a lei di un diritto di vita o di morte.

Ma come negare il principio di autodeterminazione?

Non esiste una “autodeterminazione di diritto” come potere di distruggere l’altro. Il diritto d’autodeterminazione è esistente e pieno quando le scelte di un soggetto non riguardano l’altro, ma solo i comportamenti del soggetto agente e non toccano la sua stessa vita, che è indisponibile. Io sono libero di decidere se andare a letto a una certa ora o no, di fare o no un viaggio, di intraprendere o no una professione. Ma non posso invocare la mia autodeterminazione per schiaffeggiare il vicino che mi è antipatico e tanto meno per uccidere chicchessia. Riguardo all’aborto si può forse riconoscere che la donna ha di fatto la possibilità di liberarsi del figlio. È quasi impossibile imp
edirle di provocarsi l’aborto da sola, specialmente ora che sono in vendita preparati chimici direttamente o indirettamente abortivi. Potremmo poi considerare che anche le più severe sanzioni contro l’ aborto restano facilmente inapplicate perché la prova che una interruzione volontaria di gravidanza é stata volontaria e non spontanea é molto difficile, salvo la scoperta in flagranza o l’ eventualità di complicazioni. Possiamo perciò riconoscere che vi é un potere di fatto della donna. Ma non si può per questo parlare di un diritto di autodeterminazione. Ci si può autodeterminare anche a commettere un furto o a testimoniare il falso etc. oppure a sperperare i soldi nel gioco. Ciò non costituisce un diritto. Nel caso della gestante, la situazione di fatto è soltanto un dato che può spingere il legislatore che vuole difendere il diritto del figlio, ad usare strumenti diversi da quelli utilizzati per difendere la vita dei già nati.

Per chi volesse approfondire il tema, consigliamo la lettura del libro di Carlo Casini “A trent’anni dalla legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza” (Edizioni Cantagalli, Marzo 2008).

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo:bioetica@zenit.org. I diversi esperti che collaborano con ZENIT provvederanno a rispondere ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

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ZENIT Staff

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